CANNES – Perfect Days è Hirayama. Chi è Hirayama?
La risposta interpretativa è Koji Yakusho, gigante in un ruolo agrodolce, a cui l’attore giapponese dà una risonanza magistrale; una recitazione per sottrazione, fatta di dettagli, di micro espressioni del volto, spesso infinitesimali eppure altrettanto capaci di riverberare al di fuori una ammutolente potenza dell’animo umano. La risposta narrativa, invece, è un piccolo cosmo, quello del suo appartamento, ordinatissimo ma colmo di musicassette, libri e scatole che conservano fotografie: per il resto, quel circoscritto nido domestico è un ambiente pulito da orpelli, in cui l’unico corredo – cui dedica paterna cura – è la sua collezione di piccole foglie che lui stesso raccoglie in strada da terra, quando solitarie e a rischio di deperimento, per cercare di offrir loro una vita possibile da pianta; uno specchio poetico e emozionante sulla ricerca della bellezza, un concetto, quello di “poesia”, che Wim Wenders, autore del film Perfect Days, in Concorso, spiega così: “non è qualcosa di attribuibile a un film, ma è piuttosto una scoperta, un dono che ricevi come regista dai tuoi attori, dai luoghi, dalla luce, da tutto ciò che occorre per formare qualcosa che si possa definire poesia in movimento”.
Perfect Days è il racconto della grandezza infinita dei piccoli gesti, della sensibilità emotiva insita nell’attenzione alle esigenze degli altri, e – parafrasando un titolo caposaldo dell’autore tedesco (Il cielo sopra Berlino) – della vita di un uomo, addetto alle pulizie dei bagni pubblici “sotto il cielo di Tokyo”, tetto naturale che Hirayama spesso rende soggetto, insieme alle fronde degli alberi e ai fasci di luce creati dal sole, delle sue fotografie, che scatta quotidianamente negli attimi di pausa dalle sue giornate cadenzate da una ripetitività che potrebbe sembrare alienante, e invece contribuisce a costruire questo personaggio che ha scelto la solitudine assoluta, così come le pochissime parole, la dedizione al proprio impiego, e il riservare per sé poche ma fondamentali passioni, la musica in primo luogo – infatti nel suo furgoncino con cui si sposta tra le toilette pubbliche della metropoli non manca mai di essere accompagnato da icone della musica, da Lou Reed – da cui il titolo del film stesso, omonimo del brano musicale di culto – a Patti Smith e i Kinks.
“Il personaggio s’appoggia completamente sull’attore, che fa parte dei miei prediletti; abbiamo contato molto sull’efficacia dello sguardo e sul linguaggio del corpo. Hirayama è semplice, umile, è stato un nuovo territorio per me, ma venuto dal profondo dell’animo: è un personaggio che sceglie la sua vita. L’esigenza era completamente distante da Il cielo sopra Berlino, ma sono tornato all’idea dell’angelo, lui è come un angelo. Penso che sia un film profondamente spirituale”.
Per Koji Yakusho, “Wenders ha giocato il ruolo di un padre. Il personaggio è la luce e l’ombra: la sceneggiatura era enigmatica, ho avuto bisogno di spiegazioni ulteriori per incarnarlo, a lui non interessa niente di materiale. Poi in preparazione con Wenders ho avuto chiaro il ruolo”.
Aggiunge l’autore tedesco, “non avrei potuto girare a Tokyo senza pensare a Yasujirō Ozu, mio maestro spirituale, il film è un omaggio a lui; tecnicamente sono lontano da lui ma il film crea un mondo che gli appartiene” e per la musica “il mio co-sceneggiatore, Takuma Takasaki, mi ha incoraggiato, ha suggerito qualcosa di cruciale per il racconto”.
Hirayama svolge un mestiere modesto, non per questo non se ne coglie la fine intelligenza e la cultura, probabilmente frutto di un prestigioso status sociale pregresso, come intuiamo da una breve sequenza in cui, dopo molto tempo e probabilmente una frattura di relazione nel frattempo, incontra la sorella: la “causa” è Niko (Arisa Nakano), nipotina adolescente che lo zio si ritrova improvvisamente nella sua vita, quando la stessa irrompe perché fuggita di casa, portando genuina leggerezza nell’esistenza dell’uomo, che però responsabilmente contatta la mamma e così l’incontro inatteso e intenso, in cui quella serenità che sembra guidare Hirayama è turbata, un disagio ancora tutto espresso nelle mille pieghe del viso e nel pianto quasi trattenuto ma densissimo dell’attore, che Wenders sceglie di aprire poi nell’inquadratura finale, un dondolio quasi ipnotico ma fortemente espressivo della dualità dell’esistenza, tra felicità e tristezza, in cui l’uomo si emancipa dalla sua piccola felicità metodica quotidiana e lascia guardare di sé anche il cono d’ombra che cade su ogni intimità umana. “Ho riflettuto sul passato del personaggio, ma più per l’interprete. Hirayama aveva una vita molto privilegiata, lui ora vive solo ma non è un solitario: ha rispetto per tutti gli esseri viventi e per chi tutto il mondo ignora”, secondo Wenders.
Il film di Wenders possiede la potenza della discrezione, la difficilissima abilità di narrare e trasmettere il senso della saggezza e l’intimità della spiritualità.
Perfect Days sarà distribuito prossimamente in Italia da Lucky Red.
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