All’indomani delle nomination, Alexander Payne è a Roma per lanciare Paradiso amaro, commedia malinconica sull’evoluzione di un marito indifferente e distante che si scopre tradito dalla moglie quando lei è ormai in coma irreversibile. Del film, che sfiora anche temi come l’eutanasia e il testamento biologico, abbiamo già parlato dal Festival di Torino: ora la Fox si prepara a lanciarlo in 250 copie dal 17 febbraio, forte anche delle cinque candidature, tra cui quella a George Clooney, che Payne – regista celebre proprio per la sua capacità di traghettare grandi attori hollywoodiani oltre i cliché divistici – ha voluto triste e sfigato nei panni dell’avvocato Matt King, erede, per discendenza da una principessa hawaiana, di una spiaggia incontaminata che sta per essere venduta a una multinazionale e padre di due figlie ribelli. Insomma con un bel po’ di cose da rimettere a posto mentre sta al capezzale della consorte.
“Non posso dire che mi aspettassi le nomination, ma certo sospettavo qualcosa dopo aver vinto due Golden Globe”, ha spiegato subito il regista americano di origine greca. In buona compagnia accanto a Martin Scorsese, Woody Allen e Michel Hazanavicius (che lui chiama semplicemente Michel)… “Sono felice e ansioso di incontrarli in uno di quei pranzi di gala organizzati dall’Academy pre-Oscar. Sospetto che Allen e Terrence Malick non ci vadano, ma Michel e Martin ci saranno di sicuro”. Quanto al suo preferito è l’iraniano Una separazione in gara tra i cinque film stranieri: “Per me poteva stare nella categoria miglior film tout court“.
Piuttosto legato all’Italia (capisce abbastanza bene l’italiano), non disdegnerebbe di girare a Cinecittà dove ieri ha tenuto una lezione alla Nuct, ma si capisce che si sente profondamente americano, nonostante le origini elleniche della sua famiglia. E questo spiega anche la sua predilezione per le star Usa, che ama reinventare fuori dal contesto: “Al di là dei paparazzi e del gossip, Jack Nicholson e George Clooney sono innanzitutto grandi attori che io ho cercato di portare fuori dai percorsi più scontati. Quando ho diretto Nicholson in A proposito di Schmidt tutti si stupivano perché non sollevava il sopracciglio e stava con una donna della sua età anziché con una ragazzina. Io dimentico il loro essere star e me ne ricordo solo dopo, quando leggo le recensioni, che sono tutte uguali, ma forse tra cent’anni i critici riusciranno a parlare dei miei film senza quel contorno di pettegolezzi”.
Qualcuno chiede come mai poi questi suoi personaggi si trovino sempre in situazioni brutte, ai limiti del sopportabile, messi a dura prova dalla vita. “Da Edipo in poi l’essere umano deve affrontare momenti di crisi, i buoni romanzi e i buoni film catapultano una persona comune in situazioni difficili. Anch’io racconto questo tipo di storie e lo faccio con un occhio tragi-comico”. E poi aggiunge: “Mi piacciono le storie classiche. Non conta tanto lo stile, quanto la sincerità del regista. Io sono nato negli Stati Uniti, se fossi un regista ceco avrei un altro stile e se i miei antenati fossero rimasti in Grecia, avrei un altro stile ancora. Mi piace il cinema americano fino agli anni ’80, mi piacciono i classici europei per l’umanità che mettono nella scrittura e nella recitazione. Da lì viene il mio stile, ma non è detto che non cambi, perché voglio cimentarmi con film sempre diversi”.
Così l’ha incuriosito l’idea di adattare il romanzo della scrittrice hawaiana Kaui Hart Hemmings The Descendants: “Una delle ragioni per cui ho accettato questo progetto è stata la sua ambientazione alle isole Hawaii. E non solo, banalmente, perché è stato bello vivere per otto mesi in un luogo dove la natura è meravigliosa e splende il sole. Mi ha interessato quel tessuto sociale e culturale unico, con una forte consapevolezza delle radici. Un luogo lontano da tutto, sperduto in mezzo all’Oceano Pacifico, un territorio speciale, che è allo stesso tempo provinciale e cosmopolita, perché accoglie turisti da ogni parte del mondo”.
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