Il puripremiato regista Paweł Loziński è ospite della X edizione di Ciakpolska, festival del cinema polacco. La giornata di sabato 29 ottobre lo vede protagonista dalle 11.30 alle 13.00 di una Masterclass che si tiene nell’Aula Parco dell’Università Roma Tre in via Ostiense 139.
Il regista incontrerà gli studenti per parlare del proprio lavoro. L’incontro, aperto al pubblico sarà condotto dalla professoressa Ivelise Perniola e dal critico cinematografico Silvio Grasselli.
Sempre sabato 29 alla Casa del Cinema, saranno presentati al pubblico romano due dei suoi film:
alle 16.30 You Have No Idea How Much I Love You che si incentra sul rapporto tra una madre e una figlia, filmate durante le loro delicate sessioni di psicoterapia. Il film è stato premiato al Festival dei Popoli 2016 come miglior film etno-antropologico (Premio Gian Paolo Paoli).
Alle 18.00 The Balcony Movie, un viaggio di 100 minuti che racconta le numerose conversazioni che il regista intrattiene con le persone che passano per strada sotto il suo appartamento a Varsavia. Il film ha ricevuto il Grand Prix della Settimana a Locarno 2021 e il Premio del pubblico al Trieste Film Festival 2021.Per l’occasione lo abbiamo intervistato.
Il suo è un cinema potente, ma anche molto diretto. Usa pochi mezzi e un budget irrisorio, come trova pubblico in un mondo in cui anche il cinema d’autore, con le piattaforme, sta diventando un investimento rilevante?
“Less is more”, si dice spesso. Io cerco la comunicazione con il mio pubblico nel modo più semplice possibile. Faccio film sulle emozioni della gente. Di base i miei spettatori amano guardare le stesse cose che amo io. Faccio film sugli esseri umani, non sull’ecologia, sulla politica, sulla struttura della società, quindi faccio quello che mi interessa e sono contento se qualcuno lo apprezza. Non parlerei propriamente di ‘micro budget’ ma mi piacciono le cose semplici. Ad esempio mettere una telecamera dove nessuno è mai stato, in un gruppo di psicoterapia, o in un reparto di chemioterapia in ospedale, mi piace rompere le barriere. La telecamera deve essere il primo elemento. Se racconto di qualcuno che vuole scalare l’Himalaya, la telecamera è in cima.
Come se fosse un personaggio?
Dipende. A volte osserva la realtà, come in Chemia, altre volte ci sono io dietro che faccio delle domande.
Nel rapporto tra cinema e terapia, cos’ha imparato?
Mia madre ha avuto il cancro, e io non sapevo come comunicare con lei. Sapeva di essere malata e a cosa andava incontro, ora per fortuna si è curata e sta bene, ma in quel momento soffriva dentro e io non sapevo come parlare con lei, mentre osservavo la gente intorno e loro comunicavano. Le famiglie comunicavano con i malati, ma anche i malati tra di loro. Così mi sono chiesto come facessero e cosa si stessero dicendo. Ero curioso e così ho messo la telecamera su e ho seguito la cosa per un anno. Cercavo una risposta alla mia domanda: come le famiglie affrontavano la malattia, come comunicavano. Naturalmente io stesso poi ho fatto psicotarapia.
Secondo lei il cinema stesso è terapeutico?
Non saprei rispondere, lavoro con soggetti difficili. Però sicuramente mi danno risposta, e anche il pubblico. Forse dovrebbe dirmelo lei, se i miei film sono terapeutici.
A dire la verità, li sto ancora processando. Dovremmo riparlarne tra un anno. Posso dirle che mi sono piaciuti, che mi hanno parlato.
Quello mi interessa. Il cinema per me è un modo di parlare con la gente su argomenti importanti. Se le cose che sono importanti per me lo sono anche per l’audience allora ho vinto. Penso che The Balcony abbia avuto una grande risposta.
Anche se si capisce che non è ambientato in periodo pandemico, mi ha ricordato il lockdown. Una situazione specifica che ci permetteva di comunicare con persone con cui non avremmo mai parlato, ad esempio proprio da un balcone all’altro.
Il film è stato girato prima della pandemia, l’ho finito quando il covid cominciava dopo aver girato per due anni e mezzo e anzi il covid mi ha ‘salvato’ perché non riuscivo a smettere di girare e di chiedere pezzetti di vita alle persone che mi passavano sotto casa. Era una dipendenza. Però ha anche dato una sfumatura diversa, più oscura, perché quel film aveva un messaggio positivo. Semplicemente ho un tavolino sul balcone a cui mi siedo per fare colazione o pranzo e le persone passano lì sotto. All’inizio non sapevo nemmeno come fare, se dovevo cercare un protagonista specifico o altro. Mi sono messo a sperimentare, non sapevo nemmeno se la cosa avrebbe funzionato.
Poi cos’è accaduto?
Che la gente ha voglia di parlare, ha bisogno di confidarsi, anche con un tipo strano con una telecamera su un balcone, a cui magari racconti tutto di te come non faresti con i familiari, come a uno sconosciuto sul treno. Qualcuno si sfogava, oppure parlavano al telefono, oppure piangevano, o litigavano. Dopo che erano usciti di scena gli facevo segno con la mano e chiedevo loro il numero di telefono e l’indirizzo, e il permesso di usare il girato. Molti li conoscevo, erano persone del quartiere. E la cosa importante è che poi tornavano, perché una storia non la racconti solo con una take. Durante il Covid ho invece girato un altro film di dieci minuti, sul primo lockdown a Varsavia. Sono situazioni particolari, che siano la pandemia o la telecamera, a creare i presupposti per il contatto.
L’idea geniale sta nell’ottenere in questo modo personaggi che si scrivono da soli.
E’ esattamente il punto. Ho cambiato le regole del gioco. Di solito si va a cercare il protagonista, mentre questa volta erano i personaggi che entravano e uscivano dalla mia inquadratura fissa, creando comunque un effetto cinematico. Si descrivevano esattamente come volevano, io gli dicevo: raccontatemi la vostra storia e io la trasmetterò alla gente. Era un esperimento. Faccio sempre così: prima cerco di capire se funziona, solo dopo scrivo una sceneggiatura e cerco i soldi.
Dopotutto è il vantaggio di lavorare a budget ridotti: lei può sperimentare molto di più senza la paura di perdere denaro.
E’ meno rischioso. E funziona. Se l’idea funziona allora la porto avanti. In You have no idea how much I love you sono partito dalle mediazioni durante i divorzi, ma era dura trovare i protagonisti. Ho chiesto a una mia amica terapista e mi ha proposto di mettere su un ‘drama’, una simulazione, con gente che fingeva di essere una coppia o una famiglia. Non ero sicuro che funzionasse ma ci ho provato, sempre però senza script, solo cercando cose in comune, come i problemi tipici della coppia: alcool, tradimenti, eccetera. Ho usato due amici, che però non si conoscevano. Ma sono stati così bravi a interpretare la coppia che ho avuto la chiave su come realizzare il film. Solo dopo ho scritto la sceneggiatura e ho iniziato a cercare il budget. Quello che mi serve è una chiave. Stessa cosa con The Balcony, per due settimane ho cercato la chiave e poi sono partito. Non sempre funziona. Sono anche partito con dei film che poi non ho realizzato.
Curiosità, che rapporto ha col cinema italiano?
Conosco e apprezzo i grandi, Fellini, Antonioni, ma conosco più il cinema di finzione che non quello documentaristico, anche se avete avuto eccellenti esempi di film come Ladri di biciclette che prendono dalla realtà, come faccio io.
Sta lavorando già a qualcosa di nuovo?
Ci lavoro sempre, ma non parlo mai di cosa sto facendo proprio per il metodo che uso. Deve arrivarmi qualcosa dall’osservazione del mondo, dalle mie esperienze, è difficile avere in mente un progetto. Le mie idee non vengono dall’immaginazione ma dalla realtà e da qualcosa che mi succede. Ho fatto anche un film su mio padre, ma ci ho messo quarant’anni per arrivare al punto in cui potevo fargli delle domande. Il mio obiettivo è creare un dialogo, cercare risposte, o quantomeno porre giuste domande. Fare il regista per questo è l’ideale. La mia professione non consiste nel sapere, nel presentare un’idea o un punto di vista, ma nel chiedere.
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