20 anni dopo la morte di Massimo Decimo Meridio, la corruzione prospera come una peste e la caduta di Roma sembra imminente.
È il 200 dC in Numidia, “l’ultima città libera dell’Africa Nova”, lì dove vive Annone (Paul Mescal) e combatte contro le centurie romane guidate da Marco Acacio (Pedro Pascal): un grande amore viene spezzato in quella terra “per mano” del generale romano, per cui il personaggio di Mescal viene portato a Roma prigioniero, giungendo a Ostia sulle galee e poi in un’arena di Anzio, mentre la carovana del Generale raggiunge i Fori in trionfo; le vicende della sua infanzia nebbiosa serpeggiano nel ricordo – accennato con il flashback e con una voce materna che dice: “non permettere di cambiare ciò che sei”; lo strappo con l’amata è lacerante ma la promessa reciproca “ovunque tu sia io sarò” lo mantiene stretto al sentimento, mentre la connessione con la Capitale dell’Impero risuona intima. Questa la scena si cui si dipingono le prime sequenze de Il gladiatore II di Ridley Scott, che torna “sul luogo del delitto” a due decenni di distanza da Il gladiatore (2000) con Russell Crowe.
Annone – uomo dalla forza fisica gladiatoria – sotto il potere detenuto dagli imperatori Caracalla (Fred Hechinger) e Geta (Joseph Quinn), nutre un sentimento di vendetta verso Acacio, l’uomo sotto il cui comando è perita l’amatissima compagna di vita. Lì, nella località litoranea, si presenta sulla scena Macrino (Denzel Washington), uomo per cui “è un’arte scegliere i gladiatori” e lui li sceglie intercettandone la rabbia “e tu”, dice al prigioniero, “trasudi rabbia come il latte di una meretrice”. Macrino è un Richelieu ante-litteram, in questa epopea antica, resa monumentale dalla visione e dalla opportunità tecnologiche, aspetto su cui però Ridley Scott ha spinto in maniera spesso sfacciata e al limite del ridicolo – come nella sequenza della navi lignee in mare, in cui sia le imbarcazioni che l’acqua sono palesemente artificiali; o ancora, nell’arena anziata, con scimmie antropomorfe che rasentano il macchiettismo. Peccato, perché questa scelta di GCI così sfrontata disturba, spesso mettendo in un cono d’ombra il fronte più intimo e della psicologia umana, presente nella vicenda, ma ricorrentemente frammezzato da invadenti sequenze di insistita violenza e, appunto, abuso di effetti speciali.
Intanto, Acacio, tornato a Roma trionfante, non si crogiola però nel successo, è anzi molto turbato emotivamente dalla fame di sangue e conquista degli Imperatori, e si confida con Lucilla (Connie Nielsen), sua moglie, nonché figlia di Marco Aurelio: lui non vorrebbe più combattere per la vanagloria di Caracalla e Geta – sul grande schermo due figuri capricciosi, al limite della psicosi, perfettamente disegnati come lunatici eunuchi che godono nel giocare con la violenza. Acacio, come poi si scopre anche Annone, nutre il sogno di una Roma libera e stella polare di armonia per i suoi cittadini.
È in questa fase che Annone comincia a centellinare qualche dettaglio di sé che lasci intuire forse un natale differente da quello palese: così, sotto il tiro ammirato di Macrino, che lo usa come strumento e gli fa annusare l’idea della vendetta e della libertà, sul ciglio dell’arena gladiatoria cita Virgilio: “facile è scendere nell’Averno, giorno e notte la porta di Dite è aperta; ma ritornare sui propri passi e uscire alla luce, qui sta lo sforzo e la difficoltà”.
Parole, queste, che presto Lucilla riconoscerà come proprie, alzando così il velo sulle loro identità: Annone è Lucio Vero Aurelio, figlio di lei e di Massimo Decimo Meridio – che Scott rimette in scesa con una breve sequenza, mentre Russell Crowe, steso sulla terra del Colosseo, espira a lei le ultime parole: “Lucio è salvo”. È la stessa Lucilla a riconoscere il figlio, lì ora gladiatore, e a confessare lui chi sia suo padre, e di chi sia lui nipote. La storia qui comincia a prendere un’altra forma, seppur la coerenza dell’uomo, quella di Lucio, insita nella sua stirpe, dal nonno al papà di sangue, non venga mai meno: Roma rappresentava un sogno, ora infranto, ma lui crede fermamente si possa rispristinare una vera Repubblica.
Il film di Ridley Scott è un film dall’essenza fortemente politica, che propone il tema della ragion di Stato, ma anche la brama di potere che da sempre, e per sempre, è propria della politica: “giocando” con la Storia, Scott stimola un dialogo articolato sullo stato presente della politica, naturalmente in primis quella statunitense, ma restituendo anche una visione più globale: lì – nell’antica Roma – ribolliva il desiderio vorace di conquista dei territori, ma d’altronde l’eternità di quella smania non è poi così distante dalle intenzioni intestine che determinano i teatri di guerra contemporanei.
Nel frattempo, il serpentino Macrino intuisce la tessitura famigliare e, straordinariamente strisciante, politico nella sua accezione più infima ma, altrettanto, da riconoscere come strategica, strumentalizza la circostanze, seduce le persone, si recita fedele servitore del potere imperale, nel nome della sua personalissima scalata verso l’apice assoluto: il tradimento è imprescindibile, così in primis sembra segnato il destino di Acacio, lì nel Colosseo, “per mano” di Lucio s’auspicherebbe, e sotto gli occhi di Lucilla. E Macrino gongola. “E’ così che Roma tratta i suoi eroi?”, domanda all’arena Lucio dinnanzi al cadavere di Marco trafitto dalle frecce dell’esercito romano.
La caduta degli Dei procede, così il fragile e psicotico Caracalla uccide il fratello, illuso di ascendere ancora e ancora, affiancato dai suoi due nuovi consoli nominati: la sua scimmietta e… naturalmente Macrino, il protagonista davvero originale e seduttivo de Il gladiatore II, così meschino da essere affascinante, un carisma amplificato – nella versione italiana – dalla voce di Francesco Pannofino.
È a questo punto che il cerchio – secondo il personaggio di Washington – dovrebbe cominciare a chiudersi, con la condanna a morte di Lucilla traditrice, a cui viene concesso un solo gladiatore – guarda caso, Lucio – per la sua difesa: qui Scott costruisce la mitologia della leggenda, facendo indossare al figlio di Massimo Decimo Medidio l’armatura del padre, non solo protezione fisica nella sostanza, ma naturalmente manto protettore che pulsa di paterno.
È alla Porta di Roma – un luogo, un simbolo – che si consuma la fine, o l’inizio dell’avvenire della Capitale dell’Impero, perché – nonostante un’infanzia negata, una moglie trafitta, esattamente come lo è stata sua madre, un padre perito sotto la lama del gladio – Lucio Vero Aurelio ricorre alla morte inferta, all’uccisione di Macrino come infetto male della società, per ricostruire l’anelato sogno del nonno, del papà, uomini che “sono vissuti e morti per Roma”.
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