Paolo Virzì: “Torno a Livorno, ma non è un amarcord”


Se Paolo Virzì è a ragione ritenuto l’erede della commedia all’italiana, il suo La prima cosa bella, in sala venerdì 15 gennaio con 400 copie distribuite da Medusa, è lontano dal cinismo di Mario Monicelli o dal sarcasmo di Dino Risi (peraltro nel film c’è un cameo del regista scomparso interpretato dal figlio Marco), e prossimo invece all’Ettore Scola de La famiglia, dove il tempo ammorbidiva i conflitti e modificava le passioni.
Virzì, dopo Tutta la vita davanti, abbandona la commedia sociale per avventurarsi sul terreno scivoloso della commedia familiare e intima con al centro una madre (da giovane Micaela Ramazzotti, da anziana Stefania Sandrelli) che, malata terminale, non ha alcuna intenzione di morire ma di vivere ogni giorno, anche l’ultimo, con l’intensità e la leggerezza che da sempre l’hanno caratterizzata.

Anna è in fondo un personaggio che richiama alcune figure candide, fragili e nel contempo forti, capaci di scatenare passioni, interpretate in passato da Stefania Sandrelli, come Adriana di Io la conoscevo bene.
Ad accompagnare il dolce e festoso commiato della madre ammalata, arriva a Livorno il figlio Bruno (Valerio Mastandrea) 40enne insegnante anaffettivo e scontroso, tornato in quella provincia da cui è fuggito anni prima. Con lui riviviamo i momenti più intensi e avventurosi della famiglia Michelucci, a cominciare dalla separazione dei genitori avvenuta nell’estate del 1971 per la gelosia del padre, maresciallo dei carabinieri. Valeria (Claudia Pandolfi) è la sorella sposata a un uomo che non ama; Isabella Cecchi è l’invidiosa e egoista zia Leda, Marco Messeri il vicino di casa innamorato.
Aspettatevi non un film amaro e triste, piuttosto dolce e commovente, romantico e spiritoso, fiducioso nel ciclo naturale della vita con il quale si riconcilia lo scontento Bruno. 
Il titolo, La prima cosa bella, è ispirato a una famosa canzone dell’epoca interpretata da Nicola Di Bari e forse intende rimandare alla madre che è la prima persona che un bambino scopre e sente appena nato.

Rispetto ai suo film precedenti questo sembra più intimo. Quanto è autobiografico?
La prima cosa bella si nutre di qualcosa di autentico. Mi sono reso conto, via via che giravo, che forte era il desiderio di far pace con la vita anche in un momento di sfiducia, anzi di esilio. Ho voluto tornare a Livorno, la mia città, ritrovare una patria, una casa, un luogo caro da cui ripartire. In questo senso ci sono elementi autobiografici che si mescolano con l’invenzione romanzesca. Perciò non sono Bruno anche se ho cercato di imbruttirlo rispetto al sottoscritto, nonostante il fascino di Mastandrea.

La sua non è una fuga verso il passato?
Non ci tenevo a fare un film nostalgico, del resto la nostalgia è un sentimento che non mi ha mai affascinato. Il mio non è un ‘amarcord’ livornese. Semmai il rapporto con il passato è conflittuale e la storia si conclude nel presente. E non è neanche una pellicola elegiaca, anzi ci imbattiamo con la violenza nella famiglia di Anna.

E che tipo di donna è Anna?
Vitale e allegra ma anche un po’ sciagurata, dalla forza eversiva che può essere fraintesa. Suoi sono l’incanto e l’innocenza. Il mio film è un omaggio alla follia amorosa e romantica di certe donne, a questo loro amore protettivo verso i figli fino a bloccarli ma che alla fine provoca e dà energia l’un l’altro.

Con questo film ha messo da parte la politica?
Nei miei film osservo sempre la società. Perciò non sono d’accordo con il titolo del ‘Venerdì di Repubblica’ a una mia intervista: “Scusate se stavolta non vi parlo di politica”. Spesso i giornalisti mi interpellano su temi politici, ma il mio atteggiamento verso queste questioni è naif e così sono gli stessi giornalisti a scrivere le risposte. Se mi dessero le chiavi dell’Italia non saprei da che parte cominciare. Comunque non ho mai nascosto le mie simpatie, ho sostenuto le battaglie di esponenti del Pd come Ignazio Marino e Ivan Scalfarotto, e credo soprattutto che sia importante il ricambio generazionale.

Il suo è un film affidato a un coro di attori.
Non è stato difficile mettere insieme varie personalità e lavorare con attori di talento. Complicato è stato comporre il puzzle di somiglianze, a cominciare dalla ricerca dei “Pandolfini” o “Mastandreini”, cioè i piccoli interpreti di Valeria e Bruno.

Come ha evitato il pericolo che il film slittasse verso il melenso?
La scena finale riserva allo spettatore una luce fiduciosa con le tenere parole della madre verso i suoi due figli: “Che lavoro bimbi belli, però ci siamo tanto divertiti”. Ho voluto che questa sequenza sul letto di morte di Anna apparisse lieta, con lei ubriaca di morfina. Quando l’abbiamo girata in effetti ci siamo ubriacati con la grappa che avevamo sul set: ma se la sbronza della Sandrelli era gioiosa, la mia è stata triste.

Non è preoccupato che il suo film sfiderà al box office il kolossal “Avatar”?
Innanzitutto lo vedrò e probabilmente mi piacerà anche perché mi dicono che è un film politicamente corretto, non è solo tecnologia. Il suo Titanic mi era piaciuto per le scene d’amore, più che d’azione. Sono contento che ci sia un’offerta ampia in sala: dal film di fantascienza al film sullo struggimento della famiglia Michelucci.

12 Gennaio 2010

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