BERLINO – Tra i suoi ammiratori c’è anche l’ambasciatore italiano a Berlino, che lo ha accolto nella residenza istituzionale salutandolo con l’affetto di “un fan di fronte a un maestro”. Ma ad amare Paolo Virzì, in questi giorni a Berlino come ospite dell’Italian Film Festival, è un po’ tutta la comunità italiana residente nella capitale tedesca, raccolta intorno alle sale cinematografiche che ospiteranno per una settimana i film del regista livornese. Tornato da poco dagli Stati Uniti, dove ha finito di girare il nuovo film con Helen Mirren e Donald Sutherland, Virzì ricambia l’affetto dei conterranei: “A differenza di 15 anni fa, oggi quando vado all’estero incontro spesso grandi eccellenze italiane. E se da una parte è una cosa che mi riempie d’orgoglio, dall’altra è anche una specie di ferita. È come se stessimo perdendo il meglio del nostro paese”.
In tanti, anche qui a Berlino, si aspettavano di trovare La pazza gioia fra i candidati italiani alla shortlist degli Oscar. Perché ha scelto di non provarci?
Mi era già capitato due volte, con La prima cosa bella e Il capitale umano, di essere indicato come il rappresentante italiano per gli Oscar. Ho vissuto l’esperienza con grande senso di responsabilità, non solo a livello personale, ma anche come portavoce di un’intera comunità cinematografica alla quale sentivo di dovere in qualche modo portare un risultato. Purtroppo non ci sono riuscito. I tempi in cui l’Italia vinceva regolarmente o si candidava sempre sono passati: oggi agli Oscar per il film straniero concorrono tante cinematografie da ogni parte del mondo, la competizione è molto alta. Un’altra ragione è che so che si tratta di un impegno enorme a livello di promozione: devi offrire disponibilità totale per l’attività stampa, restare negli Stati Uniti almeno per un paio di mesi, e in questo momento non sono disponibile a farlo. Infine, ero convinto che ci fossero altri possibili candidati con le carte in regola per attirare l’attenzione e l’apprezzamento dei membri dell’Academy.
La candidatura di Fuocoammare, però, è stata accompagnata dalle polemiche.
Per me si tratta di una scelta giusta e di profilo molto alto, perché è un film bellissimo che affronta con grande poesia un tema bollente, quello dell’olocausto di un intero continente assediato dalla guerra, dalla violenza e dall’intolleranza. Un esodo di persone in cerca di soccorso, costrette a fuggire in modo disperato, dolorosissimo e spesso nell’indifferenza o nell’irritazione dell’Europa. La scelta di raccontare tutto questo dal punto di vista di persone comuni, di un ragazzino o di un medico, dà al film una potenza che supera quella delle grandi inchieste. Stimo tantissimo Rosi. È un regista che ha firmato dei capolavori come Boatman, ha vissuto abbastanza negli Stati Uniti per conoscere le parole giuste per raccontare la sua poetica, ha avuto un riconoscimento fondamentale a Berlino ricevendo l’Orso d’oro dalle mani di Meryl Streep. Insomma, ha il cursus honorum e il talento giusto per fare tutto al meglio. Sono un grande supporter di questa scelta.
Nel suo nuovo film dirige per la prima volta un cast completamente anglofono. E due star leggendarie. Che tipo di esperienza è stata?
È stato un viaggio che ho cercato di affrontare con lo stesso spirito di tutti i miei film. Per quanto riguarda Helen Mirren non avevo bisogno che vincesse l’Oscar con The Queen per considerarla una delle più grandi attrici viventi. Ha talento, ironia, intelligenza, e negli ultimi anni si è rivelata in tutta la sua speciale potenza. Donald Sutherland è un eroe per me. È stato il protagonista di alcuni capisaldi del cinema con cui sono cresciuto, cioè M*A*S*H e Gente comune, ed è una leggenda di Hollywood che aveva già praticato felicemente il cinema italiano con Fellini e Bertolucci. Io, che sono abituato a lavorare con gli attori proponendogli un certo modo di fare la scena, stavolta non me la sono sentito di suggerire nulla. Anzi: cercavo di catturare quel che potevano darmi.
Com’e stato tornare a girare negli States a 14 anni da My name is Tanino?
Girare negli States non è mai stato facile dal punto di vista logistico e organizzativo. È un paese in cui il cinema è un’industria potentissima, con un sindacato molto rigido. Noi siamo abituati a lavorare con maggiore flessibilità. Ma con il mio gruppetto di italiani abbiamo cercato di proporre una metodologia diversa, provando a rubare qualcosa alla realtà… un concetto che fa impazzire gli americani. Il risultato? Presto per dirlo, sto cominciando ora il montaggio.
Una storia americana, un cast anglofono. In cosa riconosceremo il “nostro” Virzì?
A parte l’esperienza all’estero, intensa ed eccitante, credo che alla fine si tratti sempre di un mio film, che mescola gioia e dolore, desiderio di felicità e destini tragici, ironia e dramma, ma con un paesaggio nuovo e un’umanità che non è solo italiana.
In passato è stato critico con Grillo pur ammettendo di provare “simpatia” per la gente che lo segue. Oggi, dopo questa pausa all’estero, riesce ancora a empatizzare con il popolo degli arrabbiati?
Sì, nel senso che provo compassione per chi si sente frustrato, escluso e senza prospettive.Cercare di capire questa rabbia, che è anche un dolore, è un sentimento che mi scatta in automatico. La mia simpatia finisce nel momento in cui vedo persone totalmente non attrezzate e inadeguate assumere ruoli importanti con un’attitudine sprezzante e arrogante. E non è un fenomeno solo italiano. Dopo quattro mesi in America mi rendo conto che anche là basta una frase, “ci siamo stufati dei politici”, per rendere possibile l’elezione a presidente di una persona che è un bugiardo patologico, un miliardario che ha evaso il fisco ripetutamente e che non ha alcuna dote civile per ricoprire la carica cui ambisce.
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