Scena madre di Azzurro, il film di chiusura del 53esimo festival di Locarno. L’ex emigrato pugliese sfruttato una vita dal padrone ginevrino – anche se poi si scopre che si è preso la rivincita di soffiargli la bella moglie – sbotta: “Fanculo alla Svizzera!”. E’ una liberazione per lui. E magari anche per tanti lavoratori stranieri – ora prevalgono curdi, turchi e albanesi – trattati come cittadini di serie B, oggi come l’altro ieri. I ticinesi, a partire dal regista Denis Rabaglia, svizzero di lontana origine italiana, hanno dimostrato un discreto senso dell’umorismo a incassare la battuta, e infatti Paolo Villaggio scherza: “Se l’avessi detto a Zurigo mi avrebbero impiccato”.
Villaggio chiude il festival con l’onore di un Pardo alla carriera da mettere insieme al Leone di Venezia. Ossigeno per uno come lui, da sempre avido di riconoscimenti che lo portino fuori dal recinto del cabaret. Eterno Fantozzi, l’ex impiegato genovese sta in equilibrio, precario e quasi tragico, tra Le comiche e Il segreto del bosco vecchio, tra Neri Parenti e Fellini. E’ ossessionato dalla vecchiaia e dai funerali… ma anche capace di scoprirsi migliore, più buono, persino più desiderato (?) dalle donne nonostante il pancione pantagruelico – “capita che signore incinte mi cedano il posto sull’autobus” – messo in evidenza dall’immancabile pantalone hawaiano di cotone a fiori. “Sul volo Crossair che mi ha portato qui non riuscivo ad allacciare la cintura. Allora la hostess si è allontana un attimo e ho sentito che chiedeva ai colleghi una ‘prolunga per deforme’… Faccio una preghiera: non si potrebbe chiamare in un altro modo?”.
Non è un po’ forte il “fanculo agli svizzeri”?
E’ giustificato dalla storia degli italiani in questo paese, gente che ha costruito case senza poterle abitare perché, quando erano quasi morti dalla fatica, li accompagnavano gentilmente alla frontiera. Qui hanno una tendenza calvinista a non accettare gli stranieri. Del resto anche in Italia… sinistra e destra, tutti lì a pensare se sparare agli scafisti.
Siamo un po’ tutti uguali, quindi, quando si tratta di mettere mano al portafogli?
In Italia siamo più portati all’autocritica, anche esagerata. Qui meno e c’è una doppia morale pazzesca. Un sistema bancario che ha riciclato denaro sporco di ogni provenienza: gerarchi sudamericani, russi, tangentopoli, soldi dei sequestri. La felicità svizzera è solo apparente: questo è il paese dove c’è la maggior diffusione di eroina e droghe sintetiche. I giovani di Ginevra sono più disperati di quelli di Cosenza.
Come si è sentito a fare il nonno?
A mio agio. Dopo Fellini mi hanno inchiodato a fare il vecchio: Olmi, Monicelli, Wertmüller… persino in teatro, con Delirio di un povero vecchio che sto portando in giro per l’Italia. Per questo non sono più comico: i vecchi non fanno ridere, fanno pena.
E’ tramontato il progetto di un remake del “Cielo può attendere” diretto da Lina Wertmüller e ora sta pensando al Geppetto televisivo di cui si è parlato nei giorni scorsi. E’ così difficile fare un film in Italia?
Molto difficile. A meno che non ci sia Benigni oppure… Benigni!
Però a Venezia la vedremo in “Denti” di Salvatores, addirittura in concorso.
Lì faccio il dentista pazzo. Uno dei tre che curano Sergio Rubini. E non voglio dire altro.
Cos’è questa storia che è diventato meno antipatico con tempo, Villaggio?
Lo ripeto: è la vecchiaia. Un tempo Gassman mi diceva “sei antipatico quasi quanto me” per farmi un complimento. Adesso, con la barba bianca, non ho più bisogno di essere aggressivo. E poi vado a troppi funerali: Tognazzi, Fellini, Gassman… A quelli di Fabrizio De Andrè ho avuto persino un moto d’invidia: è morto giovane, al momento giusto, e ha avuto un funerale irraggiungibile.
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