Una trama lineare, che rivela con gradualità la complessità dell’animo umano e la sua opportunità di aprirsi alle cose della vita, anche quando può sembrare che questa abbia ormai determinato un andamento incasellato in perimetri professionali e personali. Dove non ho mai abitato è la storia di un incontro tra una donna, Francesca (Emmanuelle Devos), e un uomo, Massimo (Fabrizio Gifuni), che il caso vuole abbiano modo di rendere prossime le loro quotidianità, senza uno scontato punto d’incontro: la conoscenza si fa capace di stimolare le reciproche anime, a questo punto – della vita e delle cose – pronte a schiudersi in un processo di autoanalisi, confronto con se stessi, nel nome della sincerità autentica e al passo con il destino. Un film con uno stile non comune nel panorama italiano contemporaneo: equilibrato, con una scrittura densa e un raffinato senso del pudore.
Il regista ne parla raccontandolo come “un film in costume, ambientato nel contemporaneo, che nasce da ispirazioni letterarie: i racconti di Čechov e alcuni ritratti di Henry James, accanto a certo cinema americano anni ‘60”. Franchi mette in scena un film sull’amore, dicendo di aver avuto “la voglia di fare un film sentimentale; sul sentimento e su quello che porta: paure, fragilità, messa in discussione di sé. Un film sull’amore e su un momento della vita in cui si fanno i conti con se stessi, un film dolcemente malinconico”.
Un amore non orfano di erotismo, seppur suggerito, percepito, mai davvero dichiarato, che Franchi racconta come ben differente da quello già presente nelle sue pellicole precedenti: “È un film ispirato ad un cinema classico, con le dissolvenze. Le scene di sesso dei film precedenti erano psicanalitiche: qui mostrare che Massimo e Francesca facevano l’amore sarebbe stato solo uno ‘spiare dalla serratura’, pornografia, che detesto”, per poi rarefarsi in un finale che “per coerenza ai personaggi non poteva che essere quello che racconto. L’amore può essere vissuto anche circostanzialmente”.
Francesca e Massimo, ovvero Devos e Gifuni, interpreti sublimi. Franchi dei suoi attori ha detto: “Non avrei potuto immaginare un’attrice italiana nel ruolo: solo s’era pensato ad una coppia di 40enni, ma sono i 30enni di qualche generazione fa, quindi i 50 servivano come età chiave, un momento adatto per fare i conti con se stessi. Emmanuelle è cechoviana, con una malinconia ineffabile. Gifuni invece l’ho scelto dopo una serie di provini fatti a tutto il cinema italiano, ma lui era il più europeo, oltre a diverse altre qualità: mi spaventava di lui l’aspetto apparentemente intellettuale, invece Fabrizio è intelligente, si è messo in discussione, si è piegato in mille pezzi”. Gifuni: “L’ispirazione a Cechov nei personaggi c’è anche nell’abitare luoghi non propri, nell’inseguire cose che non riescono a raggiungere. Massimo è una persona che sembra aver canalizzato tutte le sue pulsioni nel lavoro, blindando le emozioni, fino all’incontro con Francesca, anima in cui si rispecchia, si riconosce. Personalmente mi ha conquistato uno sguardo caldo e pieno di compassione verso la fragilità dei personaggi, fragilità che mi sta sempre a cuore, perché strumento per un attore da manovrare e trasformare in luce”. L’attore, della costruzione fatta con Franchi, ha precisato che “l’idea di Paolo si sposava con un mio desiderio di cercare un altro modo di lavorare sui personaggi. Desideravo concentrarmi su un lavoro interno, un lavoro di sottrazione, questo è stato il lavoro fatto insieme. Quello che a Emmanuelle e me sembrava all’inizio una costrizione forte, l’essere costretti in ambienti come farfalle rinchiuse, poi si è rivelato una ricchezza, non una formalità pura”.
“Sono solo riuscito a costruire case per gli altri”, questa è una frase chiave del personaggio di Gifuni che, insieme al titolo – Dove non ho mai abitato – allude anche alla professione di Massimo e Francesca, architetti, e che il regista ha spiegato come: “ Un mestiere che trovavo simbolico e metaforico per questa storia; qui si tratta di qualcuno capace di costruire per gli altri, demolendo la propria ‘casa’ spirituale”.
Gli altri interpreti sono Giulio Brogi, nel ruolo del padre di Francesca, famoso architetto: straordinaria maschera, tesa tra la dolcezza dell’amore paterno e dell’anziana età e il piglio vivo del grande creativo di successo, ma anche del padre protettivo, nonostante una figlia adulta; Hippolyte Girardot è Benoît, marito della stessa, e Isabella Briganti l’indipendente compagna di Fabrizio Gifuni. La colonna sonora non gioca un ruolo di corredo, anzi concorre, nel suo essere variegata all’interno di uno stesso spartito narrativo, da coprotagonista. Franchi ha precisato, riferendosi alla musica di Pino Donaggio, come abbia scelto di “usarla in senso melodrammatico, perché il film è un melodramma”. Il film è prodotto da Pepito Produzioni con Rai Cinema, arriva in sala distribuito da Lucky Red.
Per Rai Cinema, Paola Malanga: “È un film sentimentale, ma mai sentimentalistico. Ringrazio Paolo e il grande Gifuni, a cui tocca il ruolo più difficile. Non è solo un film per 50enni, che lo vivono in modo più amaro, perché anche appena superata l’adolescenza i sentimenti esplodono ed è già un’età di bilanci”. Per Pepito, Agostino Saccà, che raccontando dell’iniziale tensione tra Franchi e la Devos, ha però espressamente reso merito al regista: l’attrice, dopo l’inizio delle riprese, gli ha confidato come: “Franchi è un grande regista, raramente sono stata diretta con tanta maestria, così mi sono affidata nelle sue mani”. Del film e del regista, Saccà ha spiegato il perché abbia deciso di produrlo: “Penso sia un film iper-contemporaneo, perché racconta in maniera straordinaria l’impotenza della borghesia occidentale e la solitudine. La borghesia erano 40 anni che non veniva raccontata nel nostro cinema, incapace di rispondere alla chiamata dell’eros. Ritengo che i problemi del nostro mondo occidentale siano causati dall’impotenza del rischiare delle classi dirigenti. E nessuno come Franchi, grande regista e grande borghese lombardo, poteva raccontare l’amore così”.
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