“La verità rende liberi”. Con questa tagline arriva in sala a partire dal 23 novembre, con prima nazionale a Palermo, Catania e Porto Empedocle, il film Il figlio sospeso di Egidio Termine, con Paolo Briguglia, Gioia Spaziani e Aglaia Mora. Produce e distribuisce – in circa 25 copie – Mediterranea di Angelo Bassi.
Lauro, protagonista della storia, perde suo padre all’età di due soli anni. Sua madre Giacinta fa in modo che il ricordo, già sbiadito, venda gel tutto cancellato dalla memoria di suo figlio, privandolo di racconti, ricordi e fotografie. Il giovane cresce con un’immagine paterna modellata sulle sue esigenze. Un evento sconvolge il decorso della sua quotidianità fatta di timori e incertezze: trova infatti un indizio che lo spinge a credere che suo padre avesse avuto, in Sicilia, una relazione con una pittrice. La sete di verità lo spinge a un viaggio che lo porterà a una nuova consapevolezza di sé. Il film – e consigliamo di non continuare a leggere se non volete conoscere in anticipo gli sviluppi della trama – parla di maternità surrogata. Tema in voga, affrontato recentemente anche da Michela Andreozzi nella sua opera prima Nove lune e mezza. Stavolta, però, la chiave è drammatica.
Briguglia è presente nel doppio ruolo del padre e del figlio: “Stimolante – racconta l’attore – perché mi ha permesso di interpretare un uomo fatto e finito e un altro pieno di incertezze, come un’immagine allo specchio. Del resto, il padre che interpreto io è quello dei ricordi di Lauro, che non lo ha mai conosciuto. Lo immagina come sé stesso con la barba, dato che tutti gli dicono che gli somigliava come una goccia d’acqua. Da un lato il percorso di Lauro, pieno di ostacoli e dall’altro quello di Anturio, vecchio lupo di mare. Sostanzialmente si trattava di stare su due lati del medesimo spettro emotivo. Ma mi sento più vicino ad Anturio, anche io sono padre e ho tre figli, mentre le incertezze di Lauro le potevo avere a vent’anni. I ricordi e i flashback sono spesso, nel film, proiezioni di uno stato d’animo, quindi a parte gli aspetti tecnici e i personaggi ho lavorato seguendo anche questo percorso narrativo”.
“Nel film ci sono due madri che raccontano – spiega il regista – quindi vari punti di vista che si intrecciano e non necessariamente in ordine cronologico. Sono un epigono di Nazareno Taddei, racconto per immagini e non seguendo la storia, e mi piace anche che il pubblico si confonda. Il pubblico deve lavorare, mettendo insieme le idee e i punti di vista. Come in Hitchcock, del resto o, se vogliamo, nel montaggio originale di C’era una volta in America. Il nocciolo della storia lo rivelo alla fine, ma non voglio che il film si esaurisca in pochi anni. Voglio che sia valido anche quando certe tematiche saranno di fruizione abituale. Il senso del film è che si è forti se si cresce amati e con la consapevolezza di essere stati voluti. Solo così si affrontano le proprie paure e si abbracciano i propri sogni. Il passato diventa come uno specchio retrovisore dove guardare per affrontare il futuro, che è quello che vediamo davanti al parabrezza”.
“Tutti i personaggi – commenta Aglaia Mora – sono in una situazione in cui comprimono la propria emotività, situazione che deriva dal non aver fatto i conti con la propria storia. Il mio personaggio è rigido psicologicamente come lo è fisicamente. Il passaggio più difficile è stato sospendere il giudizio su di lei. Ma alla fine vivono tutti una catarsi. La storia è universale, ma la Sicilia assume un ruolo metaforico: montagne rocciose e aspre associate alla culla rassicurante del mare”.
“Natura e cultura che si scontrano – conclude il regista – il conflitto è lì. L’amore è culturale, si impara di amare. E si è figli di chi ci cresce”.
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