“Quando il regista Calopresti mi ha chiamato per questo ruolo, ho pensato che finalmente recitavo in uno di quei film con sparatorie, nei quali si fa vedere il distintivo, già mi immaginavo True Detective. In verità il mio poliziotto – dice Giorgio Panariello – è vero, reale. Ha un salario da fame, un figlio da mantenere, una moglie da cui è da poco separato, e si confronta con i mezzi limitati del suo mestiere. Insomma è il poliziotto delle rivendicazioni sindacali più che dei mandati di arresto”.
Nel noir di Mimmo Calopresti Uno per tutti, in sala dal 26 novembre con Microcinema e prodotto da Minerva Pictures in collaborazione con Rai Cinema, Panariello ricopre una parte insolitamente drammatica dopo diversi film comici e commedie per Neri Parenti, Pieraccioni, Salemme, Brizzi e Oldoini. L’attore toscano aveva già lavorato, ruolo serio, con Calopresti in Equilibri precari, puntata pilota di una serie tv sui giovani e il mondo del lavoro realizzata per la Cgil un anno fa.
In Uno per tutti, sceneggiato dal regista con Monica Zapelli e liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Gaetano Savatteri, uscito per Sellerio qualche anno fa, presente e passato s’intrecciano. In una Trieste notturna e invernale Teo (Lorenzo Baroni), un immaturo adolescente di buona famiglia, viene arrestato dopo aver ferito gravemente un coetaneo durante una rissa tra giovani. La madre di Teo, Eloisa (Isabella Ferrari), è una donna non più amata e tradita dal marito; il padre, Gil (Fabrizio Ferracane), è un uomo arricchitosi nel giro degli appalti non sempre trasparenti; Vinz (Giorgio Panariello) è un ispettore della polizia che si barcamena e s’arrangia dopo un matrimonio fallito; Saro (Thomas Trabacchi) è un medico insoddisfatto a cui va stretta quella Calabria dove ha preferito rimanere piuttosto che emigrare.
Tutti e quattro sono amici d’infanzia, cresciuti insieme, e gli uomini sono legati da un evento tragico che ha condizionato l’esistenza di Gil. Il tentativo di sottrarre il figlio al destino del carcere riapre quella ferita non rimarginata di Gil, che presenta il conto ai suoi amici. Trent’anni dopo per tutti e tre arriva il momento di capire quale è la scelta giusta da fare.
Non è stato così semplice per Panariello confrontarsi con un ruolo serio, “anche se la comicità è spesso figlia del dramma, penso a Totò quando racconta la fame o a Benigni quando narra il lager. Il problema è stato essere credibile”, spiega l’attore toscano. E Calopresti gli ha tolto di dosso la sovrastruttura, l’esagerazione. “Mi ha suggerito di ‘guardare senza guardare’, di ‘camminare senza camminare’ e solo allora ho capito che poteva bastare uno sguardo”.
Calopresti dopo alcuni documentari, a 8 anni da L’abbuffata, torna alla finzione, dove “occorre interpretare la realtà a differenza del documentario che ha davanti a sé la realtà che scorre”. Un ritorno che si confronta con le debolezze degli adulti, gli errori di chi è genitore e la necessaria assunzione di responsabilità da parte dei giovani, di fronte alle assenze di una generazione.
“Nel film tutti si preoccupano del futuro, prigionieri di una promessa vaga di speranza e della retorica del sogno – afferma l’autore – Emerge invece forte e ricco il passato, con il quale nessuno degli adulti vuole fare i conti. Il senso di responsabilità è il tema centrale di questo mio film, dove il futuro è nelle mani del ragazzo”.
Nel libro i tre personaggi maschili sono ‘stranieri’ che vivono nella provincia dormitorio di Milano, figli della grande migrazione dal Sud al Nord. “Uno dei temi del romanzo è anche il rapporto tra genitori e figli, e qui troviamo una madre chioccia, un padre arrendevole e senza morale, che fanno di tutto perché il loro figlio non si assuma fino in fondo la responsabilità di quanto accaduto”, spiega il giornalista e scrittore Savatteri.
Isabella Ferrari racconta che nel momento di interpretare Eloisa, sul suo diario l’ha descritta come “una donna che guarda alla finestra, che non riesce né ad andarsene né a restare, una donna che ha fallito come madre e come moglie e che va contro la legge pur di proteggere il figlio”. Per Thomas Trabacchi il film pone alla fine un interrogativo importante: fino a dove è lecito spingersi per aiutare i figli, sapendo che il rapporto con loro coinvolge l’etica? “Tutti gli adulti del film sono in un punto critico e controvoglia il mio Saro non fa quella cosa giusta che toccherà al ragazzo”.
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