PADRE E FIGLIO


Anche Aleksandr Sokurov, il russo ospite fisso a Cannes, che presenta in concorso Padre e figlio, secondo episodio di una trilogia sui rapporti tra parenti stretti, marcia almeno in parte sotto bandiera italiana. Così come il britannico Peter Greenaway, qui con La valigia di Luper, prima parte di un’altra trilogia, il cui titolo suona The Moab Story. Questa seconda trilogia, ha anche ottenuto da noi il vademecum del film di “importanza nazionale e culturale”. So che queste gratifiche suonano male alle orecchie di chi ragiona ancora con la mentalità degli anni ‘50, quando il fatto che Guerra e Pace di King Vidor, con Audrey Hepburn, Henry Fonda e Mel Ferrer, passava per un film italiano beneficiando di tutte le provvidenze di legge, suonava come una rapina ai danni del nostro cinema. Ma erano appunto altri tempi, quando ciascuna cinematografia europea, almeno in teoria, aveva la possibilità di reggersi da sola. Oggi, invece, il credere che ciascuna cinematografia europea possa reggersi da sola è pura follia. Quindi il fatto che la Mikado abbia dato il suo contributo alla produzione di Padre e figlio va considerato un dato positivo.
Sokurov poi è un’eccezione nell’eccezione. Nel senso che è uno dei pochissimi registi dell’Europa dell’est, i cui film, sia pure a fatica, riescano ad avere una certa udienza in occidente. Il cinema dell’est europeo, con la caduta del Muro, ha subito un trauma passando in maniera brusca dal socialismo reale al capitalismo reale, acquistando su di un piano puramente teorico la libertà d’espressione, ma perdendo in modo del tutto concreto ogni forma di sostegno statale, garanzia di vita e di visibilità. Di conseguenza, da quando sono liberi, i cineasti dell’est sono scomparsi dai mercati occidentali (Sokurov, lo ripeto, è una delle rarissime eccezioni). Alla conferenza stampa, seguita alla proiezione del film, gli ho chiesto se si sente orfano della perestroika. Sokurov mi ha risposto che nutre speranza sulla legge di sostegno alla cinematografia nazionale varata da poco. Ma non si culla nell’illusione che la legge assicuri ai prodotti interni la visibilità internazionale. Sokurov teme la nuova forma di totalitarismo che si sta imponendo nel mondo e che tende nel trasformare i film in puri e semplici “prodotti visivi”. E’ il termine da lui usato ed evidentemente si riferiva ai film che usano a tutto spiano le nuove tecnologie.
A dire il vero, la sua Arca russa è il prodotto estremo delle nuove tecnologie: un film costituito da un unico piano sequenza digitale della durata di un’ora e mezza. Ma Arca russa non è un “prodotto visivo”: è un prodotto della tradizione culturale russa, quindi europea.

23 Maggio 2003

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