“Noi italiani tendiamo a dimenticare… A uno svizzero è venuto in mente di raccontare la storia dell’esilio di Luigi Einaudi, a noi no. Anzi molti ragazzi non sanno neanche chi fosse, Einaudi, al massimo pensano all’editore”.
Omero Antonutti, la “voce” recitante di un interessante documento filmato di Villi Hermann che ricostruisce l’esilio svizzero del primo presidente della Repubblica, è al centro di un curioso intreccio di memorie storico-politiche. Non solo il film presentato qui al festival di Locarno, testimonianza dell’avventura “antifascista” ma senza eroismi di un liberista-monarchico; ma anche il progetto sul banchiere di Dio Roberto Calvi, stoppato misteriosamente, a dire dell’attore, perché disturba qualche potente tuttora in sella. E un altro film, che girerà presto, e sarà uno Schindler’s List all’italiana.
Allora è vero che il film di Giuseppe Ferrara sul caso Calvi è stato fermato?
Sì, Il banchiere di Dio tocca da vicino persone che sono tuttora al potere, ecco perché non ha ancora visto la luce. Altrimenti perché, con la sceneggiatura già pronta e i soldi del ministero anche, questi continui rinvii… E’ un progetto che parla di banche, laiche e cattoliche, e sono fatti lontani ma non troppo. Così non si riesce a dare il primo ciak.
Curioso parlarne proprio qui in Svizzera, terra di banche e banchieri… Come si è avvicinato a Roberto Calvi?
Soprattutto leggendo. Non ho parlato invece con chi l’ha conosciuto da vicino e quindi ignoro la dimensione più privata, l’uomo. Ma senza barba ho addirittura una certa somiglianza fisica con lui.
Qual è la chiave scelta da Giuseppe Ferrara per raccontare un personaggio tanto controverso?
Quella del giallo psicologico. Gli intrecci sono tali che un film del genere potrebbe interessare anche all’estero e non solo in Italia.
Nell’attesa di Calvi cosa fa Omero Antonutti?
Il rumore di un treno di Fabrizio Costa, su uno Schindler italiano. Si chiamava Giovanni Palatucci, era questore ai tempi delle prime leggi razziali. Riuscì a salvare molti ebrei dai nazifascisti. La sua vicenda si svolge tra Fiume e Trieste, alla Risiera di San Saba, che era l’unico lager italiano, ma anche a Dachau. E’ una storia molto forte. Io, purtroppo, faccio il fascista, il cattivo.
Ma non sempre è così…
No, infatti. Con Monicelli, in Come quando fuori piove, che andrà in onda nella prossima stagione, ho un ruolo completamente diverso, addirittura comico.
Mentre nel documentario che abbiamo visto a Locarno torna al drammatico.
Ma no, mi limito a leggere pagine di diario. Però è stata un’esperienza interessante. Per esempio, durante le riprese mi sono chiesto spesso perché un uomo così colto scrivesse tanto male, con uno stile telegrafico e scarno. Sono state le nipoti di Einaudi, qui a Locarno, a rivelarmi il motivo: non aveva abbastanza carta e dunque scriveva piccolissimo e toglieva tutte le parole superflue. E’ un’immagine che già dice molto su quella vicenda.
Non potrebbe diventare un vero film questa storia di esiliati antifascisti?
Come no? Molti di loro erano ragazzi – Pertini aveva 24 anni quando espatriò – rischiavano la pelle, costruivano l’Italia. Dovremmo riscoprire la nostra storia ora che è passato un po’ di tempo e siamo in grado di vedere le contraddizioni ma senza dimenticare. Però tendiamo a dimenticare.
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