È davvero un’occasione mancata, per la Roma di Luis Enrique. Perché alla serata per il bel documentario su Agostino Di Bartolomei, per tutti “Ago”, il capitano del secondo scudetto romanista, ci sono assenze che bruciano. Non c’è Totti, altro numero 10 e grande capitano, non c’è Daniele De Rossi, pur annunciato nei giorni scorsi e fino a stamattina. Tra l’altro la proiezione è stata fissata proprio di lunedì per permettere alla squadra di esserci. All’appello ha risposto solo Baldini, Sabatini, Viviani della Primavera e c’è poi, unico calciatore della nuova Roma Simone Perrotta. Ma niente red carpet giallorosso, come annunciato, sono arrivati direttamente in sala. Però, naturalmente, ci sono i compagni di allora: Chierico, Pruzzo, Righetti insieme alla moglie Marisa, al figlio Luca. Il tifoso eccellente Carlo Verdone trova l’occasione per scherzare sul palco: “Approfitto di questa occasione per ringraziare Pruzzo per il gol dell’83 contro la Juve”. In platea ci sono anche D’Alema e Antonello Venditti. Proprio sulle note della sua “Tradimento e perdono”, dedicata a Diba, scorrono i titoli di coda del film con i disegni di Guttuso e partono gli applausi commossi.
Le assenze stavolta dispiacciono davvero. Perché 11 metri, una delle punte di diamante della selezione di Extra, è innanzitutto, come dice il regista Francesco Del Grosso (già autore di un premiato documentario su Vittorio Mezzogiorno): “un atto di risarcimento”. Un modo di capire una morte da stronzo, come dice il figlio Luca. Che quel giorno, il 30 maggio del ’94, a dieci anni esatti dalla finale con il Liverpool andata storta ai calci di rigore, tornava da scuola e trovò suo padre, che aveva appena 39 anni, riverso nel cortile della casa di San Marco di Castellabate, nel Cilento. Si era sparato al cuore con la pistola che portava con sé nel borsello ai bei tempi e che una volta aveva sventolato, ma senza usarla, per calmare un branco di laziali dalle intenzioni non proprio pacifiche.
Il film, giustamente, lascia quella morte sospesa nel legittimo dubbio delle ipotesi e delle interpretazioni: unica cosa certa, non fu per motivi familiari o sentimentali, come Ago aveva lasciato scritto in un biglietto indirizzato “alla mia amata Marisa”. Alle moglie spetta ricordare come quel gesto fosse per chi l’aveva amato avvolto in un silenzio strano, paradossale. Perché poi la casa si riempì di gente che veniva da Roma per i funerali. “Che mangiava, beveva e rideva… Ma non si poteva, non si doveva fare. E allora li ho cacciati fuori”. Per Marisa, da quel momento, è stato importante soprattutto o soltanto occuparsi dei due figli, Luca e anche Gianmarco, nato da un precedente matrimonio, ma che lui aveva cresciuto come suo. “Soprattutto ho cercato di restituire ai ragazzi gli scherzi e le cavolate di Agostino, i momenti sereni”.
Anche se dalle tante testimonianze esce il ritratto di un uomo pensieroso, che prendeva tutto sul serio. Medici sportivi, giornalisti, compagni di squadra ricordano quel tiro micidiale, la bomba di un calciatore che aveva forse il torto di essere malinconico. Lento in campo in un mondo che andava a un’altra velocità “morale” e che si sbrigò a dimenticarlo. Fatto sta che l’anno dopo la Coppa dei Campioni persa col Liverpool, Liedholm si portò al Milan Di Bartolomei, il primo capitano della Roma romano (di Tor Marancia) e romanista. Forse fu quella la ferita insanabile. E poi, dopo un fine carriera nella Salernitana che grazie a lui tornava in serie B, non ebbe mai l’incarico manageriale che si aspettava dalla AS Roma.
Oggi tocca a Verdone esprimere l’amarezza del tifoso: “Peccato che non ci siano giocatori della Roma stasera. Di Bartolomei l’ho incontrato una sola volta, gli ho stretto la mano, è stato un capitano di solida disciplina, di grande autorevolezza. Non era uno di quelli che fomentano. Una vera signorilità, la sua. La squadra di oggi dovrebbe imparare da lui”.
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