La soluzione è un castello di sabbia. Come insegnano i filosofi della scienza, a volte, per risolvere un rompicapo e arrivare a una grande scoperta bisogna semplicemente distrarsi, ritrovare la serenità del gioco, delll’infanzia e tuffarsi nell’eterno presente. Ecco la chiave di Old.
Non stiamo rivelando nulla del nuovo thriller di M. Night Shyamalan, anche perché Castello di sabbia è proprio il titolo del graphic novel francese di Pierre Oscar Lévy e Frederik Peeters che lo ha ispirato (in Italia lo pubblica Coconino Press – Fandango).
In bilico fra l’horror e il dramma familiare, il film si apre su una famigliola che arriva in un resort paradisiaco (luogo imprecisato, ma è la Repubblica Dominicana ad aver ospitato il set). Gael Garcia Bernal e Vicky Krieps sono i genitori di due figli, un bambino di sei anni e una ragazzina di poco più grande. E se la famiglia nasconde dietro l’apparente serenità alcuni tristi segreti, sono comunque determinati a godersi questa breve vacanza acquistata su internet a prezzi stracciati. All’indomani del loro arrivo, dopo un’abbondante colazione, i quattro vengono accompagnati in gran segreto su una spiaggetta isolata che il padrone del resort riserva solo a una clientela iper-selezionata. E’ un luogo davvero inaccessibile e un po’ sinistro, circondato da alte falesie rocciose, una spiaggia bella ma anche, da subito, inquietante. E dopo il ritrovamento di un cadavere esplode il tema del film, dichiarato fin dal titolo: per qualche oscuro motivo su quella spiaggia il tempo si concentra e si dilata, mezz’ora equivale ad alcuni anni, si cresce e si invecchia con rapidità mostruosa. E dunque… si muore, altrettanto velocemente.
Ma la macchina del tempo del cineasta di origine indiana, spielberghiano convinto, intreccia anche altri temi, dalla malattia, fisica o mentale che sia, ai legami di famiglia con le loro tortuose ragioni, al passaggio tra infanzia e adolescenza e quindi alla vita adulta in un prodigioso coming of age che avviene letteralmente sotto i nostri occhi. Nell’universo concentrazionario da cui è (quasi) impossibile uscire sono costretti a convivere un pugno di naufraghi del tempo: c’è un’altra famiglia composta da un medico autoritario, dalla giovane moglie narcisista, dalla nonna e da una bimbetta biondissima; c’è poi un rapper con problemi di coagulazione; ci sono un infermiere gentile e la moglie psicologa affetta da crisi epilettiche gravissime. Il piccolo gruppo (nel cast anche Rufus Sewell, Alex Wolff, Eliza Scanlen, Thomasin McKenzie) cerca di restare unito e di collaborare ma esplodono le contraddizioni dell’animo umano, tanto più nel confronto con l’inesorabile scorrere del tempo e del decadimento, reso esplicito dal meccanismo metafisico del plot.
L’autore di The Village e Signs, viceversa, dilata il tempo della narrazione, stando addosso ai suoi personaggi con la macchina da presa e moltiplicando i colpi di scena interni alla vicenda (a sorprendersi non è tanto lo spettatore, che una volta compreso il meccanismo finisce per intuire alcuni snodi). Stupisce, invece, la conclusione della storia, che appare anche di cruda attualità in un’epoca ossessionata dai virus e dai vaccini e propensa a diffidare della medicina e dei farmaci. E forse non è un caso che proprio durante il lockdown, Shyamalan abbia lavorato allo storyboard attraverso Skype per dodici settimane. Segnaliamo la sua apparizione ‘hitchcockiana’ nei panni dell’autista della navetta.
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