“Nella ex Jugoslavia nema problema – non c’è problema – è una suprema dichiarazione metafisica, pronunciata secondo l’umor nero che governa quella terra irrimediata. Se un giorno in quel mosaico dissestato di popoli uno spirito comune prevalesse sul cannibalismo etnico e soprattutto religioso, la concordia potrebbe sancirsi con la decisione di incidere sulle tombe di tutti la stessa formula di commiato e di appuntamento di là: nema problema“.
La notazione di Adriano Sofri compare nella postfazione del volumetto (edito da Manni) che raccoglie la sceneggiatura di Giancarlo Bocchi (con Arturo Curà e Luigi Riva) e interventi autorevoli di Ettore Mo e Bernardo Valli.
E si intitola proprio Nema problema l’opera prima prodotta con l’articolo 8 e distribuita dall’Istituto Luce, che arriva in sala il 7 maggio in contemporanea a Radio West. Una circostanza casuale ma che vale a riaprire il dibattito non tanto su Bosnia e Kosovo quanto sul ruolo dei media nei conflitti recenti. Il regista vuole “bruciare la fiction con la fiction” ovvero svelare la mistificazione sistematica che parte dai tg e arriva nei libri di storia. “I giornalisti sono parte integrante del sistema bellico”, dichiara. Documentarista a Sarajevo, in Kosovo, in Afghanistan, ora cineasta con un nuovo progetto, Il tesoro, che parlerà di guerra e denaro, Bocchi denuncia: “Raiuno non ha mai mandato in onda il mio Morte di un pacifista, poi acquistato da Telepiù e premiato ad Alpe Adria, dove raccontavo la storia di Moreno Locatelli, ucciso sul ponte di Sarajevo, e rivelavo circostanze scomode”.
Polemico con gli inviati di guerra, ingranaggi di un meccanismo di falsità globale, accusa anche il sistema del credito pubblico e annuncia un “libro bianco sul cinema italiano” lanciando bordate tanto contro la vecchia legge che in direzione della riforma Urbani. “Per Nema problema avrei voluto Bruno Ganz, ma è svizzero e quindi non può lavorare in un film finanziato dallo Stato per questa regola della nazionalità che mi sembra a dir poco razzista. Ho costruito comunque un cast europeo con attori macedoni come Labina Mitevska, il britannico Vincent Riotta, l’italo-belga Fabrizio Rongione”. Tra i protagonisti anche Zan Marolt, nato a Sarajevo e rimasto lì durante l’assedio, capace di dare ambiguità al personaggio della guida locale dotato di agganci tra i militari e le truppe irregolari. Sarà lui a portare l’inviato italiano e il collega belga dal comandante Jako, una specie di Che Guevara dei Balcani dai metodi poco ortodossi.
Tra i modelli di un film “tradizionale”, ma senza dolly né colonna sonora, Bocchi cita Paisà di Rossellini come pure Joris Ivens, mentre di Michael Winterbottom (Welcome to Sarajevo) dice: “si è solo documentato a posteriori su una guerra che non conosceva”. Apprezzato No man’s land “ma io, dal canto mio, non ho cercato il grottesco, piuttosto la verità che, come dice Dostoevskij, è spesso inverosimile”.
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