Nelson Mandela maestro di libertà


Goodbye BafanaBERLINO “Perché, mamma, hanno picchiato quella donna?” “Perché non aveva il lasciapassare”. “Ma la hanno messa nel furgone, e le hanno portato via il bambino…”. “Ma lei non poteva stare in strada senza lasciapassare”. “Noi ce l’abbiamo il lasciapassare, mamma?” “Noi non ne abbiamo bisogno: siamo bianchi”. E’ uno dei dialoghi di Goodbye Bafana, il film di Bille August presentato in concorso a Berlino che racconta la storia (autentica) di uno dei carcerieri di Nelson Mandela. Forse il primo bianco a rendersi conto che quell’uomo colto, pacato e solenne non era un terrorista né un comunista, che i neri non erano spietati criminali, pronti a buttare in mare tutti i bianchi, e che l’Apartheid, il potere assoluto di una minoranza di quattro milioni di bianchi su 25 milioni di neri era un’iniquità.

Siamo alla fine degli anni ’60, in pieno Apartheid. Sembra quasi impossibile che siano esistiti quei metodi: la segregazione razziale, i pestaggi, le umiliazioni, il carcere duro contro attivisti politici o semplici cittadini di colore. Sembra impossibile tutto quello che vediamo accadere nel carcere di Robben Island: la censura feroce della posta, la possibilità di un solo colloquio di mezz’ora ogni sei mesi, i lavori forzati. A Nelson Mandela uccidono un figlio e non può neppure andare a seppellirlo. Sembra impossibile che una persona abbia potuto sopportare tutto questo per 27 anni e poi sia riuscito a diventare presidente del Sudafrica e predicatore di pace, addirittura Premio Nobel per la pace. Ma questo lo sappiamo o possiamo immaginarlo. Ciò che non sappiamo è quanto sia stato duro per un bianco, un privilegiato, spostare il suo sguardo, diventare un po’ più democratico. Si può pagare cara anche la tolleranza. Ed è quello che vive James Gregory (Joseph Fiennes), carceriere e contemporaneamente prigioniero di un sistema, di uno Stato militarizzato, di un pregiudizio che diventa legge. Racconta bene tutto questo Bille August, già vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1989, nel film, coprodotto e distribuito dall’ Istituto Luce, che uscirà in Italia il 30 marzo, con il titolo Il colore della libertà .

“Siamo tutti schiavi dei condizionamenti”, dice Joseph Fiennes. “Il mio personaggio compie un viaggio, riesce ad allontanarsi da ciò che pensava all’inizio, e non è una passeggiata”. Che cosa sapeva del Sudafrica, prima di iniziare a girare? “Spessissimo, a Londra, mi trovavo a firmare le petizioni per liberare prigionieri in Sudafrica. E ogni volta chiedevo, m’informavo, volevo sapere per chi stavo firmando, qual era la sua storia. Ma quello che il film mi ha fatto scoprire è ancora peggiore”. Per interpretare il suo ruolo, Joseph Fiennes recita alcune scene in Xhosa, la lingua madre di Mandela che il carceriere James Gregory aveva imparato da bambino, con un compagno di giochi africano. “Mi sono messo a imparare lo Xhosa, e anche attraverso la lingua sono riuscito a sentirmi più vicino a loro”, dice l’attore inglese. Dennis Haysbert, che interpreta Mandela, racconta: “Ero molto intimorito all’idea di incarnare Nelson Mandela. Per me è uno dei cinque uomini più importanti nella storia dell’umanità per quello che ha fatto per il Sudafrica. Ho lottato contro questa paura. Ho fatto ricerche su Mandela e sul Sudafrica. Ho ascoltato i suoi discorsi, ho capito quanta umanità ci fosse in lui. E ho capito che c’è ancora tanto da fare in Sudafrica”.

09 Febbraio 2007

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