Sognare è vivere ha inizio nel ’45, prima della guerra di indipendenza in Israele: il territorio è sotto il mandato britannico. Si arriva al 1953, anni dopo il riconoscimento dello Stato. Questo arco storico fa da sfondo, ma recita anche da coprotagonista, nella storia di Fania (Natalie Portman) e Amos, suo figlio, unica fonte di entusiasmo e sollievo in quel periodo per lei di condanna, dettata dalla monotonia quotidiana e familiare, che la spinge ad alimentare il pensiero fantastico come strumento di evasione dal reale, finché la depressione, e poi la morte, hanno il sopravvento.
Il narratore in voce off è un Amos che, anziano nelle rovine di Gerusalemme, “osserva” i luoghi della sua infanzia e le situazioni vissute con l’amata mamma e il padre Arieh, intellettuale e scrittore. Spesso pervasa dal silenzio dell’anziano, la scena si accomuna in questo al quasi perenne silenzio dell’Amos bambino (pessime le – poche – di lui parti doppiate), la cui recitazione espressiva risulta perfetta per il ruolo.
Il piccolo Amos è interpretato da un delicato e convincente Amir Tessler, sguardo e atteggiamento iper-ricettivo, tipico di certi figli unici nati già adulti e, forse per questo, capace qui di definire il rapporto simbiotico – ma anche paritario – con la madre, che trasforma in storie fantastiche la loro dinamica quotidiana, per fuggire dalla realtà.
Natalie Portman qui dirige per la prima volta, anche se stessa, efficace nel darsi un ruolo da protagonista, fondamentale ma non invadente, compartecipe ma non egoica, anzi generosa nella costante condivisione della scena. La sua è una regia pulita e curata, con un impianto scenico importante, in cui non mancano tocchi sofisticati ma non ridondanti, come la dissolvenza che confonde e trasforma pioggia, uccelli e acqua, oppure il dettaglio della marmellata che lenta si scioglie nella minestra forse ad evocare lo scorrere del sangue, o ancora il punto di vista del bambino sotto al tavolo, concentrato sulla parte inferiore della gambe delle donne che s’avvicinano man mano.
Cura estetica ma anche belle metafore, tra cui quella del labirinto, che ruotano intorno a concetti riflessivi e filosofici. Usa luci acide la Portman regista, oppure colori dichiaratamente desaturati, fino a neri intensi, al limite del bicolore bianco&nero, scelte tutt’altro che puramente estetiche.
La Portman acquista nel 2007 i diritti del libro “Una storia di amore e tenebra” di Amos Oz, israeliano, natìa origine condivisa con la stessa attrice naturalizzata americana; nella versione cinematografica il cuore del racconto è l’ombelicale rapporto madre-figlio, pulsante di tanto affetto ma sulla base di importanti riflessioni su grandi tematiche: niente e tutto, sofferenza, innocenza, silenzio.
Come recita il film, Fania, “cresciuta in un’eterea e nebulosa bellezza, le cui ali si erano schiantate contro Gerusalemme, calda e polverosa” muore a 38 anni, perché “la promessa della sua infanzia era stata calpestata e ridicolizzata dalla monotonia della vita stessa”; “iniziò ad immaginare la morte come un protettivo e rassicurante amante”, altra scena che la Portman visualizza esattamente come nelle parole, donando grande delicatezza all’ultimo frangente drammatico.
Il film, dopo 8 anni di scrittura, contemporanea alla raccolta di fondi per poterlo produrre – è costato 4 milioni di dollari, con una coproduzione israelo-statunitense, in cui la stessa Portman si è esposta, oltre che come regista e interprete – è stato girato nel 2015, anno in cui ha partecipato fuori concorso al Festival di Cannes 2015, oltre ad ottenere la candidatura di Natalie Portman alla Golden Camera. Le riprese sono state fatte in Israele, tra cui a Gerusalemme, e l’autrice ha deciso di girare in lingua ebraica. Il film esce in Italia l’8 giugno, distribuito da Altre Storie.
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