Nanni e gli Orsi d’oro: dopo la vittoria berlinese i fratelli Taviani arrivano al Nuovo Sacher, dove ancora ci sono i poster di Una separazione, l’iraniano che ha appena vinto l’Oscar e che l’anno scorso ebbe l’Orso. Il cinema di Trastevere è affollatissimo di giornalisti per l’uscita italiana di Cesare deve morire, in 40 sale da venerdì 2 marzo proprio con la Sacher. “Ho visto il film a novembre, pensavo di essere il primo, ma ho scoperto di essere l’ultimo… Altri distributori, con formule diverse, tutte legittime, avevano preferito non prenderlo”, spiega Nanni. Tra lui e i due registi toscani è una lunga storia di amicizia e stima professionale. “Si è chiuso un arco che ci vede insieme da quando lui ci portava i suoi filmini da ragazzo e poi quando fu attore in Padre padrone“, ricorda Paolo, che è il più giovane dei due, seppure di poco.
Pochi istanti prima Nanni li aveva presentati proprio con l’anno di nascita: “Vittorio, classe 1929, Paolo classe 1931, Grazia Volpi, classe”. Grazia, anche lei toscana, ma di Pontedera, “niente bellezze artistiche ma solo la Piaggio, finché poi non arrivò il teatro sperimentale e alternativo”, è la loro produttrice dal ’68, con Sotto il segno dello Scorpione, quando lei, che era stata moglie del terzo fratello, Franco Taviani, iniziò a collaborare con Giuliani G. De Negri.
Grazia ci racconta la grande difficoltà di mettere in piedi Cesare deve morire, il “Giulio Cesare” in galera. “Un film senza donne, in bianco e nero, girato nel carcere di Rebibbia, da una tragedia di Shakespeare… Infatti siamo rimasti fermi a lungo, poi sono arrivati un po’ di soldi – non tanti – dal ministero e mi sono buttata”. Al Mibac si sono uniti la Rai, il Comune di Roma, la Regione Lazio, la Film Commission. “Molti di questi finanziamenti li devo ancora vedere – ci spiega – ma un cinema come questo dà un senso a quello che faccio e per me è sempre stato così”. Troppa commedia, troppo giovanilismo nel cinema italiano? “C’è sempre stato un cinema di commedia e un cinema drammatico. Ma ci sono tanti talenti giovani e non giovani che fanno un cinema importante”, ed è ancora Paolo a parlare. “Non dimentichiamo Monicelli, toscano come noi – dice a sua volta Grazia – la commedia italiana spesso parla di problemi importanti, ma è vero che è diventato difficilissimo fare un cinema serio oggi, persino con maestri come i Taviani riconosciuti anche all’estero, anzi forse ancora di più all’estero”. La produttrice, che ha nel curriculum autori come Ferreri, Solanas, Lizzani e Maselli, pensa anche che questo successo aiuterà gli altri produttori. Racconta Paolo: “Il ministro Ornaghi ci ha ringraziato: questo film ci aiuta a dare un’immagine diversa dell’Italia. Siamo stati contenti ma abbiamo approfittato per un affondo: allora date un cambio di rotta, il cinema è ricchezza economica oltre che artistica, i governi sono quasi sempre stati contro il cinema e la cultura. Ornaghi si è sentito incoraggiato, ma i soldi sono quelli che sono, ci ha detto”. Raccontano i due registi di quanta gente li abbia ringraziati per il film e la vittoria a Berlino in tutti i modi, con telefonate, email, messaggi. “Questo premio è diverso dalla Palma d’oro che vincemmo per Padre padrone, questo è un momento particolare, c’è una svolta, un sogno di rinnovamento: forse un film così anomalo asseconda questi desideri di cambiamento. Addirittura un signore ci ha detto che ha messo la bandiera italiana alla finestra”. Moretti però smorza: “E’ una vittoria dei Taviani, non del cinema italiano”.
Né lui né i due autori pensavano all’Orso d’oro, quando li hanno richiamati a Berlino. “Ci aspettavamo un premio speciale della giuria – ricordano – come lo diedero a Wajda. Ma poi gli orsetti sul tavolo diminuivano e alla fine è rimasto solo questo. Sul palco abbiamo pensato subito ai carcerati, a loro l’abbiamo dedicato”. Moretti fa una domanda “scomoda”. Pensavate mai alle vittime girando il film? “I nostri sentimenti verso i reclusi attori erano contraddittori: si crea una grande complicità e amicizia sul set e il rapporto con gli interpreti ancora ci morde dentro. Insieme al regista teatrale Fabio Cavalli, che da anni lavora con loro, abbiamo cercato una scheggia di verità. Le parole di Shakespeare riuscivano a tirar fuori le loro emozioni e a purificare quello che avevano fatto”. Come disse uno dei detenuti attori: “Quando recito mi sembra di potermi perdonare”. Sasà Striano, Bruto, che dal 2006 è libero e oggi recita per professione, la mette così: “Meglio fare un dramma di Shakespeare che fare un altro dramma fuori”. Ma i penitenziari non sono tutti uguali. A Rebibbia ci sono tre compagnie teatrali, a Reggio Calabria non c’è neanche la biblioteca.
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