Sentir parlare Cristian Mungiu, il regista Palma d’oro con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni nel 2007, vuol dire immergersi nella realtà della Romania contemporanea, con le sue evidenti contraddizioni, ma anche essere costretti a specchiarcisi dentro. Perché la corruzione e i dilemmi morali che affronta non ci sono certo estranei. “Parlo di ogni paese dove esiste la corruzione e mi auguro che il mio film possa essere compreso da tanti perché affronta il tema della colpa e della responsabilità, la disillusione di chi ha raggiunto la mezza età e si chiede come si faccia a trasmettere ai propri fili un’educazione morale”.
Bacalaureat, che in Italia è distribuito dalla Bim dal 30 agosto con il titolo Un padre, una figlia, vincitore del premio per la regia all’ultimo Festival di Cannes, è la storia di Romeo (Adrian Titieni), un chirurgo affermato che vive in una piccola cittadina della Transilvania con una moglie che trascura e una figlia che adora (Maria Dragus). E’ una buona famiglia borghese e da sempre sognano di mandare la ragazza all’estero a studiare. Ora Eliza ha ottenuto una borsa di studio per un college prestigioso in Inghilterra, ma per poter partire deve superare gli esami di maturità nel suo paese con una buona votazione. Però un giorno, mentre esce dal liceo, viene aggredita da un balordo che tenta di violentarla e le rompe un polso. E’ scossa e forse non riuscirà a superare le prove scolastiche senza un piccolo aiuto, magari la raccomandazione di un amico nel collegio dei docenti. Per il 48enne Mungiu questa vicenda, raccontata con un tono realista che “utilizza gli eventi della vita quotidiana cogliendoli in tempo reale, senza ricorrere al montaggio o a una riorganizzazione” e dove la psicologia e la soggettività del personaggio viene fuori “osservandolo da una certa distanza”, è occasione per prendere il pubblico in contropiede e metterlo via via di fronte alle proprie stesse responsabilità.
“Se la società non ti piace, devi fare qualcosa per cambiarla e non limitarti a cercare delle soluzioni per te. Pensiamo di risolvere tutto mandando i nostri figli all’estero, ma così non spezzeremo mai il cerchio del compromesso”, ci spiega. Il film assume il punto di vista di un uomo di mezza età colto in un momento di crisi e di passaggio: è affermato professionalmente e socialmente, ma il suo matrimonio gli va stretto, sua madre è ormai anziana, le sue aspettative per il futuro sono tutte riposte nella figlia diciottenne. Eppure, nonostante il grande amore per questa ragazza, il dialogo tra i due è interrotto. “Nel mio paese – prosegue Mungiu – si parla sacrificio generazionale come se appartenesse solo alle persone di cinquant’anni o più, ma ogni generazione fa i suoi sacrifici. Noi stessi non abbiamo messo i nostri figli a proprio agio. Nel momento in cui scendiamo al primo compromesso, ci poniamo in una posizione completamente diversa anche rispetto a loro. Come facciamo a trasmettere un’educazione morale, dei valori?”.
Il film si chiude in modo ambiguo, non sappiamo come diventerà quella ragazza che per il momento si oppone ai compromessi del padre “Neppure io so come si comporterà. Ha trovato una sua soluzione, ma è una soluzione pratica che non definisce anche il suo futuro. Noi stessi siamo stati in grado di essere diversi rispetto ai nostri genitori? Di fatto no. Il film invita ciascuno a guardarsi allo specchio, a confrontarsi con i desideri e le ambizioni di quando aveva quell’età”.
Mungiu racconta: “Alla caduta del comunismo ci siamo illusi di poter avere una vita migliore. Ma il fatto è che l’essere umano vuole essere felice subito, non sa aspettare, e questo crea uno scollamento tra la scelta individuale e la società. Le persone non sono razionali ed ecco perché le società non progrediscono. Tutti i progressi si fanno nella storia obbligando le persone a essere razionali. Oggi c’è una grande diffusione del radicalismo e con la globalizzazione il mondo è diventato molto piccolo. Non c’è più un luogo dove possiamo scappare o evadere. Se vogliamo una soluzione collettiva, dovremmo smettere di ragionare in termini individualistici”.
Poi ci racconta della difficile situazione del cinema di qualità, anche quello europeo, nel suo paese. “Devo fare gli stessi sforzi di otto/ nove anni fa, come ai tempi di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, per far vedere i miei film. La mancanza di sale è tragica. 25 anni fa c’erano 400 monosale, oggi sono solo venti. Intere città di 50mila/ 100mila abitanti sono senza uno schermo, e questo è il risultato della corruzione politica. E’ andata perduta la vecchia generazione che aveva l’abitudine di uscire per vedere questo tipo di film, la nuova generazione usa il telefonino o frequenta i multiplex”. Che si può fare? “Stiamo cercando di modificare la legge cinema per incoraggiare la nascita di nuove sale d’essai. E poi bisogna fare uno sforzo di comunicazione. Io viaggio per il paese con proiezioni itineranti”.
Leggi l’intervista di Cinecittà News
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