BRESLAVIA – “Più che scrivere un soggetto, al momento sto girando intorno a delle idee. Ma è troppo presto per parlarne. Per me girare un film è un’avventura interiore. Per questo non riesco a farne uno dopo l’altro: ho bisogno di un periodo in cui scaricarmi del film appena fatto e ricaricarmi per quello successivo. In quarant’anni di carriera ho girato solo quando ho sentito l’urgenza di raccontare una certa storia in un determinato modo”. Relatore di una masterclass al T-Mobile New Horizons International Film Festival di Breslavia, che quest’anno ha dedicato al regista una retrospettiva completa, Nanni Moretti ha ripercorso domenica, in una maratona di quasi due ore, le tappe principali della sua carriera.
“Da ragazzo le mie antenne erano forse più sintonizzate sulla realtà di quanto non siano oggi. In Ecce Bombo c’è l’inizio delle radio libere e delle tv private, ma non me ne sono reso conto dall’inizio: raccontavo solo quello che vedevo. E sinceramente scrivevo anche con più disinvoltura. Ora il momento della scrittura è diventato più lungo, sono più critico con me stesso, ho meno immediatezza”. Tre le regole auree cui è rimasto da sempre fedele (“stare davanti e dietro alla macchina da presa; parlare del mio ambiente; farlo con autoironia”), tre gli attori ricorrenti (“Buy, Orlando, Morante“), tanti i maestri: “Come spettatore e come regista sono sempre stato legato al cinema d’autore degli anni ’60, quindi i primi film di Olmi, Pasolini, Ferreri, Taviani, Bellocchio e Bertolucci, Polanski, la Nouvelle Vague e il Free Cinema inglese. Erano film che immaginavano, ognuno secondo il proprio stile, un nuovo cinema e una nuova società, rifiutando l’eredità precedente. Un cinema di ricerca in tutti i sensi”.
Attento a evitare domande dirette sull’attualità politica italiana (“Parliamo di film per favore, non di politica”), Moretti ha raccontato l’evoluzione del suo cinema a partire dalla ricerca del rigore degli inizi, “che spesso traducevo in una certa rigidità”, passando per la voglia di rompere gli schemi emersa alla fine degli anni ’80. “In quel periodo nel cinema italiano ci fu un giustissimo ritorno all’importanza della sceneggiatura. Il problema però era che molti registi si accontentavano di un compitino ben fatto, da accademia. Gli bastava svolgere benino storie già raccontate, e meglio, venti o trent’anni prima. Così mi venne voglia di fare film più liberi da un punto di vista drammaturgico e narrativo: Palombella Rossa, Caro Diario e Aprile“. Quanto alla svolta emotiva de La stanza del figlio e Mia madre, per Moretti si sarebbe trattato di un’epifania “nata prima da spettatore e poi da regista. Ho cominciato a dare più importanza alla trama, all’intreccio e perché no ai sentimenti. E nel farlo non ho mai ricattato il pubblico scegliendo a priori un “tema importante”. Ci sono registi che si accontentano di avere tra le mani un tema forte, e che finiscono per disinteressarsi alla riuscita finale del film. Come a dire: dato che il tema è importante, il film ti deve convincere per forza. Questo io non l’ho mai fatto. Sono sempre partito da sentimenti personali, privati, intimi. Non da temi”.
Cauto nell’esprimere un giudizio sul cinema di oggi, “il futuro del cinema non è appiattirsi sull’attualità, ma mostrarci la realtà che ancora oggi non riusciamo a vedere”, Moretti ha scherzato sulla sua fama di regista implacabile (soprattutto) con gli attori: “Dicono che sono un incubo, lo so. Ma io penso che un regista debba sapere esattamente non tanto quel che vuole, ma quello che non vuole nel suo film. E io ho sempre avuto molto presente il tipo di recitazione che non mi piace: quella esteriore e letteraria, ma anche l’immedesimazione totale per cui l’attore scompare nel proprio personaggio. Per fortuna ho sempre lavorato con attori davvero molto bravi. Magari escono dal film un po’ estenuati, ma conflitti veri e propri, sul set, non ci sono mai”.
Quanto al suo lavoro parallelo di esercente e produttore, che considera “una specie di ginnastica mentale e professionale”, Moretti ha un solo rimpianto: “Da 25 anni ho un cinema, da 30 una casa di produzione, sono stato distributore e ho organizzato festival di corti e rassegne di registi esordienti. Non l’ho mai fatto col piglio del difensore del cinema di qualità: lo faccio perché voglio mostrare agli altri i film che piacciono a me. La cosa triste è che in sala non c’è un ricambio generazionale. Mi sembra che i ragazzi siano poco interessati ai film che programmo nel mio cinema. Ma finché ci riesco… vado avanti”.
Il regista australiano, è noto per il suo debutto nel lungometraggio con il musical 'The Greatest Showman'
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