Miracolo a Milano: c’è ancora un pastore


Come dice con grande orgoglio più volte, “Io sono Renato Zucchelli, vivo a Milano e faccio il pastore”. Se vogliamo, la sostanza di questa storia portata sullo schermo da Marco Bonfanti, con il docu-film L’ultimo pastore, presentato al Tff, nella sezione Festa Mobile, è tutta qui. Nel 2012 esiste ancora, tra i 4 milioni di persone che abitano nel capoluogo lombardo, una persona che si guadagna da vivere allevando quasi 1.500 pecore e portandole lui stesso d’estate in alta montagna mentre d’inverno il gregge si aggira nell’hinterland, tra capannoni, traffico e cantieri che via via si mangiano il verde urbano.

 

Potrebbe sembrare un romantico solitario, il protagonista di una storia d’altri tempi, ma Renato Zucchelli ha una moglie e quattro figli che condividono la sua scelta di vita. La moglie sbriga le pratiche burocratiche, i figli adorano mescolarsi tra i tanti animali che popolano la loro vita quotidiana. E quello che Bonfanti – approdato a questo lavoro dopo un esordio di soli cortometraggi – filma sembra il testo di una canzone di Celentano, e la citazione non è casuale, perché per Zucchelli Celentano è un idolo proprio in virtù del fatto di aver interpretato un film su Serafino, il pastore ribelle, e di aver raccontato la via Gluck. Ma il sogno di fare questo mestiere viene da lontano: “Mia mamma – confessa Renato – voleva che mi trasferissi a lavorare a Milano. Ci ho resistito cinque giorni, e solo perché non sapevo la strada per tornare a casa. Poi il venerdì mi hanno fatto rientrare e non sono mai più ripartito.

 

Renato Zucchelli è un personaggio che stupisce man mano che lo si conosce e forse è per questo che lo stesso regista, partito con l’idea di un semplice documentario, ha deciso, strada facendo, di cambiare il suo progetto costruendolo come un film di finzione e inserendo all’interno altri personaggi, come quei bambini di una scuola milanese che non sanno nemmeno cosa sia un pastore e che Renato accetta di buon grado di incontrare: “Ho realizzato un documentario perché ho raccontato un personaggio reale – afferma il regista – ma l’ho raccontato dal mio punto di vista, procedendo come se si trattasse di un film a tutti gli effetti. Non ho mai utilizzato la camera a mano, ogni volta la macchina da presa era piazzata. Inoltre sono stato io a suggerire a Renato di portare le pecore in Piazza del Duomo a Milano, per farle incontrare con i bambini, come si vede nel finale. Un’idea che ha subito sposato facendola diventare quasi una missione. E Renato quest’impresa memorabile una mattina la compie davvero, invadendo con il suo gregge la storica piazza, tempio della frenesia meneghina. Un gesto quasi futurista, una provocazione condotta con il sorriso sulla bocca che ha riempito i telegiornali ed emozionato i ragazzini. “Il mio intento – spiega Bonfanti – era quello di riportare un angolo di mondo in via di estinzione in un luogo ormai disumanizzato, perché cosi ormai sono diventate tutte le metropoli. In questo senso Milano potrebbe essere una qualsiasi altra città nel mondo. Poi ho pensato che Renato, con la sua purezza, il suo essere rimasto quasi un fanciullino pascoliano avrebbe potuto lanciare un messaggio di speranza verso le generazioni più giovani”.

 

La scena in Piazza del Duomo, che ricorda molto il finale di Miracolo a Milano – anche se lì al posto delle pecore ci sono i poveri che volano sulle scope – è preceduta però da una scena molto triste, quella in cui la signora Zucchelli, che ha accompagnato il marito in un pascolo di periferia, rivolta al figlio più piccolo, che è insieme a loro, dice: “Tu non vedrai niente di tutto questo. Qui un giorno non ci sarà più nulla”. E Questa scena in qualche modo riempie il film di un pessimismo che non si risolve nemmeno con il finale allegro. Come mai? “Perché il mio è un film profondamente triste, che non parla solo della fine di un mondo, di un modo di vivere inghiottito dalla modernità, ma anche della fine di tutte le cose. Un destino che non possiamo contrastare se non titanicamente, come fa Renato, che lotta per l’esistenza di una realtà di cui lui è uno degli ultimi rappresentanti. L’universalità di questo racconto – che Bonfanti definisce quasi una favola – è in un certo senso testimoniata dall’accoglienza calorosa che gli è stata riservata in alcuni festival mondiali, come quello di Tokyo, in cui il film è stato mostrato in anteprima assoluta o quello di Dubai, che da pochi giorni lo ha selezionato per la prestigiosa rassegna che si svolgerà a dicembre. “Credo che la mia storia abbia avuto tanto successo in questi paesi – spiega ancora Bonfanti – perché l’Oriente da sempre ha un senso del poetico interiore molto più sviluppato del nostro e anche per questa ragione sono molto più sensibili di noi rispetto a certe tematiche. E poi quello del pastore è un mestiere antico, alla base di tutte le comunità umane dell’antichità”. Il film, che come sottolinea il regista con orgoglio, ha avuto un sostegno produttivo di soli sponsor privati (la provincia di Bergamo e il comune di Milano si sono poi inseriti in un secondo tempo) per un totale di 70 mila euro di spesa. E a questo proposito il regista conclude: “Ci piacerebbe che l’uscita del film fosse mirata, e solo in alcune sale selezionate, perché si tratta di un prodotto molto particolare che con una distribuzione disattenta correrebbe il rischio di andare disperso”.

27 Novembre 2012

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