“Lasciare la frontiera aperta come necessità umana, al di là degli schieramenti”. Le parole, dette fuori campo dal regista Enrico Maisto, riassumono il senso del suo documentario Comandante, in concorso al Milano Film Festival (Teatro Strehler, fino al 14/9). Classe 1988, nel curriculum il cortometraggio Kino e il backstage di Vincere di Marco Bellocchio, nel suo primo lungometraggio Enrico Maisto mette in scena l’amicizia tra due uomini, nata dalla parte opposta della barricata: Felice Esposito, ex militante di Lotta Continua ed ex detenuto politico e Francesco Maisto, giudice di sorveglianza a San Vittore negli anni di piombo.
Felice è un meccanico, si muove per il quartiere milanese della Barona cercando di portare avanti le sue istanze politiche. Francesco è un magistrato, il suo lavoro è vigilare sull’esecuzione della pena, assicurandosi che vengano rispettati i diritti dei detenuti. Loro punto d’incontro è la macchina da presa del regista che prova a ricomporre un’identità familiare a partire da dubbi e ombre intorno agli anni di piombo, interrogando i due protagonisti sul loro passato e sui loro incontri al Mulino Doppio, luogo pubblico e di libera discussione, frequentato negli anni ’70 da ex brigatisti, ma anche da poliziotti e magistrati. “Il film nasce dalla mia esigenza di filmare Felice, di ritrovare questo personaggio della mia infanzia attraverso le immagini. Nella prima stesura non era previsto che entrasse in gioco mio padre. È stato Felice a portarmi verso di lui, verso la loro amicizia nata durante il terrorismo. Due uomini distantissimi per ruolo e posizioni, come soldati di stanza su avamposti di frontiera nemici che abbiano imparato a conoscersi e a volersi bene – racconta il regista”. Un viaggio nella Milano tra gli anni ’70 e ’80 osservata con gli occhi di oggi, di un ragazzo che allora non era ancora nato, ricostruendo anche un pezzo della storia politica italiana, tra giustizia e democrazia, lotta armata e istanze rivoluzionarie. I ritratti dei due protagonisti vengono delineati nelle proprie abitazioni, quartieri e in auto tra le vie della città, spesso fotografate con tonalità buie o plumbee. La parte finale del film si svolge a San Vittore, nei sotterranei dove si trovavano le celle di isolamento fatte chiudere da Francesco Maisto nel 1982, per il trattamento incivile riservato ai detenuti che vivevano come topi, senza luce, ne acqua, ne bagni. Come per gli assassini del giudice Guido Galli, che lui non ha mai voluto incontrare per lo “sdegno nei loro confronti”, ma fece trasferire in un luogo meno fatiscente. La narrazione parte dal personale delle domande, apparentemente ingenue e poste con pudore da Enrico Maisto al padre e a Felice, in un percorso di scoperta tra giorni che lui non ha vissuto. Sono i momenti più toccanti, quando il rapporto privato tra padre e figlio diventa narrazione e descrizione di un sistema: politico, giudiziario e carcerario, in un’epoca della nostra storia, ancora misteriosa. Non sappiamo se tutte le domande e le curiosità di Enrico Maisto hanno avuto una risposta soddisfacente, ma mettere al servizio della storia la propria infanzia e i dubbi sul passato del padre hanno portato come risultato a un film intimo e nello stesso tempo pubblico, che rivela storie che ci sono passate vicino e non sempre siamo riusciti a cogliere. “Penso che mio padre frequentasse quegli ambienti rischiosi e persino compromettenti perché in quel luogo si sentiva a suo agio, in quel clima familiare che subito dopo l’arrivo a Milano da Napoli gli restituiva qualcosa delle sue radici. E poi c’era sicuramente l’esigenza, forse anche un po’ provocatoria, di prendere le distanze da un’istituzione, come quella carceraria di quegli anni nella quale lui non si riconosceva del tutto. Credo sentisse il bisogno di tenere aperto un dialogo con quella parte di società che era in rivolta, rischiando pure di diventare lui stesso un bersaglio trovando in Felice colui che gli salvò la vita”. Ancora una volta il confine viene rimesso in discussione.
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