Di nuovo a Venezia con la parola “amore” nel titolo, Michele Placido porta in concorso la passione tra due poeti e scrittori dei primi anni del secolo scorso, Sibilla Aleramo e Dino Campana. Un film attesissimo, prodotto da Cattleya e Raicinema, e intepretato da una coppia veramente “calda” del cinema italiano come Laura Morante e Stefano Accorsi. In attesa di vederlo e raccontarvi la giornata al Lido di Placido, ecco un’intervista esclusiva con l’attore-regista pugliese che ci racconta la sua poetica.
“Un viaggio chiamato amore” è il tuo quinto film. Era questo il cinema che sognavi quando hai cominciato?
Sono partito dalla cronaca, con Pummarò, come un cronista che descrive una situazione precisa, l’emigrazione. Ne è venuto fuori una sorta di film militante che riusciva a fotografare ciò che accade per strada non dico in modo documentaristico ma evitando la finzione. Anche Le amiche del cuore partiva dal documento: le ragazzine di periferia che cercano lavoro, un po’ alla De Santis o come Le ragazze di Piazza Di Spagna, ma già lavorava sulla poesia dei personaggi. E questo è accaduto sempre più: ho cominciato a cercare emozioni che trascendano la sceneggiatura.
Leggi poesie?
Leggo poesia da sempre: da bambino, negli anni ’50, leggevo Pascoli, Gozzano e D’Annunzio. Oggi, a 56 anni, è Montale il poeta al quale mi sto dedicando più assiduamente. I poeti richiedono una relazione esclusiva. Il carteggio tra Sibilla Aleramo e Dino Campana l’ho trovato in libreria, non avrei mai immaginato che dei letterati si fossero amati così intensamente e spregiudicatamente. Nel film abbondano voci fuori campo: la poesia diventa tappeto musicale per sfidare il pubblico a emozionarsi.
C’è un regista a cui ti piace collegare il tuo lavoro?
Abbiamo avuto una cinematografia esaltante. Fellini, Visconti, De Sica: sono poeti. Ma è un contemporaneo come Bellocchio, con cui ho lavorato in L’uomo dal fiore in bocca, quello che mi ha influenzato di più di tutti. Nel mio film ci sono omaggi a Bellocchio sul piano della messa in scena: viene da lui la grinta parossistica di certi personaggi, e Dino Campana è su quell’onda.
Oggi si parla molto di industria culturale. Tu che ne pensi?
Mi piacerebbe essere ispirato da un’industria, ne abbiamo la capacità organizzativa e produttiva, anche se non ci sono più personaggi come Ponti o De Laurentiis. Oggi intravedo qualche spiraglio: Lionello Cerri ad esempio tenta di mettere insieme cultura e prodotto. Così come Raicinema: sanno creare risonanza distributiva attorno a un film.
Che rapporto hai con la tecnologia e come la concili con l’aspetto emotivo?
Il mio operatore, Luca Bigazzi, è uno dei più informati sulle nuove tecnologie. Abbiamo usato il digitale per la postproduzione, i trucchi, il montaggio in Avid. Ci sono autori che sanno fare poesia con il digitale, specie in Nord Europa, come con Italiano per principianti. Però non va usato per entrare nella tendenza, in modo imitativo. Certi film italiani sono stati un disastro. La pellicola dà tempi diversi, il digitale è a rischio di pressappochismo e quella telecamerina condiziona gli attori.
In che modo ti senti legato alla tradizione realista del cinema italian?
Spesso ricordiamo De Sica e Visconti, ma dimentichiamo i “minori”: Pontecorvo, Maselli, Rosi, Zurlini, Petri. Un cinema che aveva voglia di entrare nella società per migliorarla. Un cinema civile. Anche con la storia d’amore tra Sibilla Aleramo e Dino Campana cerco di lasciare un segno nelle coscienze. Un modello è un film come Magnolia, che vuole raccontare aspetti umani nel modo più sincero.
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