Michel Gondry: avanguardia animata

Si è tenuta alla Casa del Cinema di Roma la masterclass del regista Michel Gondry


L’occasione è stata la presentazione, nel contesto del festival Rendez-vous – Appuntamento con il nuovo cinema francese (che domani fa tappa a Palermo), dell’originale documentario animato Is the Man Who Is Tall Happy?: An Animated Conversation with Noam Chomsky, già visto alla scorsa Berlinale e in uscita il 23 ottobre con I wonder pictures dopo un’anteprima al Biografilm di Bologna tra il 6 e il 16 giugno. Molto loquace, il regista parla non solo del film ma anche del suo mestiere, tra le domande dei ragazzi del Centro Sperimentale di Cinematografia che lo interrogano con vivace curiosità, e quelle che gli poniamo noi.

Qual è il suo rapporto con i giovani?

Sono veramente contento che si interessino al film, ma non ho esperienza di scuole, perché il cinema l’ho imparato in un altro modo, guardando le VHS di un coinquilino cinefilo negli anni ’80. Però ho parlato di giovani nel film The we and the I, ispirato a un viaggio che ho fatto in un bus circa trent’anni fa. Un gruppo di ragazzini sono entrati schiamazzando, erano insopportabili e non riuscivo a leggere il mio libro. Ma man mano che scendevano alle loro fermate e diminuivano di numero, i discorsi si facevano più profondi. I capetti perdevano la loro leadership e i più calmi acquisivano spazio e importanza.

Ha fama di essere regista eclettico, visionario, surreale. Passa dal romanticismo del cinema francese alle grosse produzione americane come The Green Hornet…

Non vedo la differenza tra i paesi. Posso dire che The Green Hornet non è stato un grande successo, ma nemmeno l’ultimo La schiuma dei giorni, realizzato in Francia, se è per questo. Credo dipenda dal fatto che sono tratti da opere molto amate nei rispettivi paesi. Io cerco solo di esprimere i miei sentimenti.

Ma la scienza di Chomsky e la cultura pop le considera coniugabili?

Non saprei. Ammetto che non capivo molte delle cose che mi diceva Chomsky mentre realizzavamo il documentario, ma facevo finta di sì. Ho usato il disegno animato per dare la mia interpretazione. Non è un’interpretazione scientifica. Disegnare significa rendere visibile l’invisibile. L’animazione permette di realizzare anche quello che non esiste. Magari un disegno non basta e arrivi a 12 o 24 fotogrammi al secondo. Ma ho scelto questa tecnica anche per un altro motivo. Quando si realizza un documentario, il patto con lo spettatore lascia sottintendere che stiamo mostrando la realtà. Però non sempre è così. E’ fin troppo facile per chi ha le informazioni in mano (gli autori) nasconderle per poi tirarle fuori al momento opportuno e guidare l’opinione dello spettatore. Con il disegno è diverso. Sai già che non è reale, per cui non può corrispondere a una verità assoluta. In un certo senso c’è meno possibilità di manipolazione.

Ma lei immagina disegnati tutti i suoi film?

No, trovo che lo story-board rischi di bloccare il lavoro degli attori. Lo uso solo per spiegare alcune cose.

Cosa ne pensa della battaglia che il suo paese sta tenendo per affermare l’eccezione culturale dell’audiovisivo in Europa?

Il cinema americano studia appositamente metodi per sedurre il suo pubblico, e questo funziona in tutto il mondo. Alcuni paesi comunisti non l’hanno lasciato entrare. Io penso che dovremmo in tutti i sensi trovare un modo per lasciare entrare la diversità creativa in ogni parte del mondo.

Ha iniziato con i videoclip. Come si è evoluto il suo percorso?

E’ vero, facevo i video per una band punk rock che suonava nella mia scuola,  ma erano troppo strani e ad alcuni non piacevano. Per fortuna tutte le idee rifiutate le ho scritte su un taccuino, così ho potuto riutilizzarle quando mi sono trovato a doverli realizzare per lavoro. Alcuni artisti, come Bjork, apportano molte idee, altri, come i White Stripes, semplicemente mi lasciano carta bianca. Il mio primo video famoso è stato Around the World dei Daft Punk, dove la coreografia di ogni gruppo di ballo corrispondeva a uno strumento musicale. E’ molto importante, specie per i video, mantenere fino all’ultimo l’idea di partenza. In quel caso sì, mi considero una avanguardista. Per il resto non ci penso, tento solo di preservare e controllare la mia diversità.

Progetti per il futuro?

Mi sono un po’ stufato degli effetti speciali. Non per niente, è che i produttori non li capiscono. Per esempio sul 3D di The Green Hornet, a ogni esplosione, volevo che il fumo restasse anche nell’inquadratura successiva in modo che sembrasse che fosse accaduto in sala, e non solo sullo schermo. Ma non l’hanno capito. Non capiscono molto spesso. Poi sono abituato a realizzare gli effetti visivi prima di girare, in modo che gli attori abbiano un riferimento, mentre i produttori vogliono farlo dopo per non prendersi rischi, dato che non si può mai essere sicuri che la lavorazione di un film arrivi a giusto termine. Farò qualcosa senza effetti. Sto lavorando a una storia su due ragazzini che vogliono costruire una macchina per partire in vacanza. C’è una scena molto divertente dove, per non farsi beccare dai poliziotti, la truccano come se fosse una casetta. Era il sogno mio e di un mio amichetto, non l’abbiamo mai realizzato. Fare film per me è anche un modo di realizzare le cose che non ho potuto realizzare nella vita. E poi ho in mente un altro esperimento: voglio mettere insieme gruppi di persone non addette ai lavori e nemmeno necessariamente aspiranti, fargli scrivere una storia e fargliela dirigere, senza che qualcuno li guidi, in regime di democrazia e autarchia. E’ un esperimento sociale per dimostrare che le persone si sanno autogestire.

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11 Aprile 2014

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