La storia di Guida e Euridice, due sorelle brasiliane che si vogliono un gran bene ma il destino separa da giovani, è già tutta annunciata nel prologo de La vita invisibile di Eurídice Gusmão, diretto da Karim Aïnouz e Premio Miglior Film a Un Certain Regard all’ultimo festival di Cannes. Immerse entrambe in una foresta sconosciuta e misteriosa con le sue voci improvvise, all’arrivo di un temporale s’incamminano verso casa. Guida/Julia Stockler è rapida e sicura nel ritrovare la via del ritorno, non lo è altrettanto Euridice/Carol Duarte che pare spaventata, inquieta tanto da perdere contatto con la sorella che chiamerà più volte ricevendo da lontano una risposta sempre più flebile. Un prologo che annuncia la futura separazione delle due sorelle che vivono quasi in simbiosi, in una famiglia tradizionale, piccolo borghese, nella Rio de Janeiro di inizio anni ’50.
Guida, 20enne, confida alla sorella minore la sua prima importante avventura amorosa; Euridice, 18enne, il suo sogno di diventare una pianista professionista, incoraggiata dalla sorella maggiore. Ma Guida scalpita, vuole emanciparsi dall’autorità paterna che domina e opprime l’ambiente familiare. Innamorata di un marinaio straniero è pronta a seguirlo fino in Grecia, fuggendo di nascosto dalla famiglia. Quando, alcuni mesi dopo, torna tra le mura domestiche incinta e sola, Guida è accolta in un primo momento dalla madre pronta a perdonare, ma viene subito allontanata con violenza dal padre per nulla commosso dal prossimo arrivo di un nipote. Euridice, tenuta all’oscuro del ritorno della sorella maggiore dai genitori, continua a sperare di rivederla tanto da ingaggiare un investigare privato per rintracciarla.
Guida, nel frattempo ospitata con il piccolo nato grazie alla solidarietà di Filomena – “la famiglia non è sangue ma amore” -, invia periodicamente alla sorella minore delle lettere affettuose, mai recapitate dalla famiglia, convinta di poter riallacciare quel legame così profondo e di avere una sorella musicista iscritta al Conservatorio. Ma il sogno di Euridice si è scontrato con il modello familiare che ha introiettato – maternità e casalinghitudine – e che le è stato imposto da una società profondamente maschilista.
Il film ripercorre in parallelo i momenti salienti e decisivi, dalle feste natalizie ai rapporti con l’altro sesso, delle due esistenze segnate entrambe da una maternità all’inizio non voluta, poi faticosamente accettata. I due percorsi riusciranno mai a incrociarsi? Di sicuro il film conosce un’accelerazione finale che stona un po’ con il ritmo ampio del film, forse ha prevalso l’esigenza di asciugare la narrazione che già aveva impegnato quasi due ore mezza, sia il bisogno di mettere la parola fine a quel rapporto tra le due donne largamente analizzato.
La vita invisibile di Eurídice Gusmão, in sala dal 12 settembre con Officine Ubu, è tratto dall’omonimo romanzo (2015) di Martha Batalha che tornerà in libreria in una nuova edizione negli stessi giorni dell’uscita del film. Sarà inoltre pubblicato in contemporanea “Il castello di Panema, il nuovo romanzo dell’autrice. Nel film lo sguardo del regista è tutto rivolto al mondo femminile con le sue emozioni e strategie di sopravvivenza e solidarietà di genere, mentre l’universo degli uomini è confinato e prigioniero del suo iper machismo.
“La lettura del libro ha innescato vividi ricordi della mia vita. Sono cresciuto nel Nord-Est del Brasile conservatore degli anni ’60, in una famiglia composta in maggioranza da donne – spiega nelle note di regia Karim Aïnouz – Gli uomini erano spariti o spesso assenti. Ciò che mi ha spinto ad adattare il romanzo di Martha Batalha era il desiderio di rendere visibili molte vite invisibili come quella di mia madre, mia nonna, le mie zie, e tante altre donne di quel tempo”. Del resto il cineasta brasiliano ha attinto all’esperienza maturata con il suo primo film, un documentario-ritratto della nonna e delle sue quattro sorelle.
Un ritorno alle origini in questo suo settimo lavoro molto sentimentale che ricorre al melodramma, rivisitandolo adattandolo nel contesto di una forte critica sociale. “Ho immaginato un film pieno di sensualità, di musica, di dramma, lacrime, sudore e mascara, ma anche un film gravido di crudeltà, violenza e sesso”.
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