TRENTO – Mauro Corona – scrittore, alpinista e scultore – è uomo d’essenza montana, un’appartenenza e un rispetto per questo spaccato di Natura che porta sempre con sé orgoglioso, e indica la salita – fisica e metaforica -, insomma l’arrampicata – da cui si evoca anche il titolo del suo recente libro: Arrampicare. Una storia di rocce, di sfide e d’amore – come necessità presente “nell’archetipo dell’uomo, che risiede del remoto gene umano”.
Corona, Arrampicare. Una storia di rocce, di sfide e d’amore. Qual è stata la spinta che l’ha portata a voler scrivere questa sua storia?
Mah, potrei dire almeno dieci citazioni del perché uno scriva: Brodskij diceva non per la caducità della propria carne ma per salvare qualcosa della nostra e altrui civiltà; Čechov diceva: si scrive perché abbiamo sbattuto il naso e ce lo siamo fracassato; Sándor Márai diceva si faccia all’80% per vanità, al 20% perché è come se qualcuno ti suggerisse. Io quando scrivo è perché spesso voglio sentire… quella storia lì: non ho mai scritto con una scaletta e poi mentre scrivo non penso alle mie paure, ai mie drammi: forse era meglio – parafrasando Borges – mi fossi limitato a leggere, ma non è così, nessuno ha mai scritto se non per uscire dall’inferno. Io ho il ‘dono’ di non dormire di notte, un po’ per una questione biologica sin dall’infanzia, così fino alle cinque del mattino scolpisco – folletti, gufi, gnomi -, leggo perché qualcuno mi racconti una storia, e scrivo. Per questo libro… ho quattro figli, non mi sono mai spiegato bene con loro, non perché non si vada d’accordo ma perché alcune cose nonostante qualsiasi tappa di età non le potrebbero recepire, e quindi ho lasciato un qualcosa in modo che molti anni dopo adesso… diranno: ‘…questo qui era nostro papà’, oppure i nipoti capiranno che ‘…allora non era quello che recitava la parte perché era timido, perché beveva…’, cioè questo libro è una confessione, un’autobiografia non richiesta.
E la montagna influenza la sua scrittura?
L’arrampicata ti insegna la sintesi: via il superfluo! Così succede anche quando si fa scultura. Lo stile è velocità. E questa cosa della montagna ti rimane, si infila sotto pelle e diventa sintesi anche inconscia di quello che fai, anche scrivere.
Ha mai pensato che un suo libro potesse diventare un film?
Certo che l’ho pensato! E l’ho pensato soprattutto per vanità. Per esempio L’ombra del bastone io lo vedrei un film, si girerebbe con cinquanta capre, una latteria e la follia dei personaggi; oppure anche Storie di neve. Oggi mi interessa meno ma fino a un paio d’anni fa volevo riscattarmi da questa mia vita che galleggiava sugli escrementi e non usciva, e quindi ho cominciato a scrivere per vanità e per un paio di storie come quelle che ho nominato avevo la vanità potessero diventare un film: oggi non è più così, perché ho cominciato a capire che ogni secondo della mia vita è prezioso per me, così i premi letterari, che inseguivo, non mi restituiscono più qualcosa: se mi dicessero che ho vinto il Nobel, giuro, non esco dalle mie montagne!
Il cinema di montagna, quando è efficace? Cioè, quali sono le storie che lei – da uomo che davvero conosce la montagna – considera utili e efficaci per raccontarla veramente?
È un cinema bellissimo. Qualsiasi film di Natura – montagna, mare – è importante quando educa, quando fa riflettere, e fa dire a qualche giovane ‘voglio provare anche io a fare così, ad aver rispetto della montagna’.
Lei ha un film prediletto che racconta la montagna?
Potrei citare Cerro Torre – È la natura a dettare le regole di Thomas Dirnhofer, ma voglio citare in assoluto Cinque giorni e un’estate di Fred Zinnemann: il protagonista era Sean Connery, e il film vinse proprio qui a Trento e io fui davvero contento, è un film struggente. C’è questo giovane che cade in un ghiacciaio, la fidanzata lo aspetta, lui non torna più, ma quando lei ha 85 anni lui esce dal ghiaccio, dov’era rimasto vent’anni, e lei l’aspettava. È bellissimo.
Il Trento Film Festival racconta la montagna con i film e con i libri, perché è fondamentale parlare di montagna nel tempo presente?
Soprattutto della naturalità della montagna, perché gli esseri umani hanno fretta oggi e quindi vanno a usare la montagna velocissimamente, trascurando non solo alcune cose belle che potrebbero vedere, ma anche le attenzioni verso la montagna: se parto un giorno prima arrivo al rifugio a piedi, ma se parto da Milano per fare una scalata però devo tornare in città l’indomani allora arrivo con la macchina davanti alla parete. Parlare della montagna, e davvero della Natura in generale, dovrebbe significare ‘educare a…’, siamo l’unica nazione che nelle scuole non si occupi di educazione né alimentare né naturale. Nelle scuole io manderei le guide alpine, i contadini, gli artigiani, i boscaioli, i cercatori di erbe, in modo che i bambini avessero un’infarinatura della montagna, per insegnare loro il rispetto, e che la fretta non sopporta il rispetto.
L’andare al cinema, quindi la sala come luogo sociale, soprattutto pensando a contesti più periferici come magari i piccoli luoghi di montagna, che valore ha in questo tempo presente?
È aggregativo perché il posto è piccolo, anche se in una città come Trento al Festival vengono da tutto il pianeta, quindi qui è un’enorme sala da cinema. E comunque ripeto: quando qualcosa fa riflettere è importante che la possa vedere anche una sola persona. Per esempio, io ho cominciato a scolpire seriamente quando su uno dei due televisori in bianco e nero che c’erano nel mio paese vidi un servizio sullo scultore Augusto Murer: vidi questi torsi di donna, in larice, e lì ho detto ‘è la mia strada’, perché già scolpivo ma non avevo mai visto quella potenza, quindi la televisione, l’audiovisivo, mi ha aiutato a migliorare.
Al di là del cinema di montagna, guarda film?
Solo Western: Sergio Leone e Clint Eastwood. Poi tutti i film di Bud Spencer e Terence Hill saranno immortali, e i Fantozzi, ma mi annoiano i film melensi in cui cominciano a dire: ‘io senza di te non riesco a vivere…’, no no, io vivo benissimo anche senza di te! Quindi rispondo: il Western, per cui s’andava in macchina fino a Belluno per vederli.
Perché il Western?
Perché siamo cresciuti con il mito dell’eroe debole, povero, disgraziato ma vincente. Il paese dove sono cresciuto, anche se non s’indossava il cappello da cow boy e la pistola, aveva quell’etica lì: la giustizia, la sfigatezza eppure la resistenza.
Pensa ci siano – in senso metaforico, filosofico – dei punti di contatto tra la potenza e la magia della montagna e quelle del cinema?
Sì, senza l’una non può esserci l’altro: l’epica che rappresentano, raccontano, è nata nelle stalle, è nata nei racconti della sera, nelle osterie, da cui poi uno usciva, andava poco più in là e raccontava aggiungendo qualcosa, e così nasce l’epica del narrare.
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