Matteo Garrone, primo amore. Arrivano in cofanetto con Fandango HE i primi film del regista romano, film poco visti, se non ai festival, in qualche caso neppure distribuiti, ma che già rivelavano il talento visivo e concettuale di un autore che unisce la sensibilità pittorica all’attenzione alla realtà del documentarista. E dunque in versioni in qualche caso snellite, Terra di mezzo (1997), Ospiti e Oreste Pipolo fotografo di matrimoni, entrambi del ’98 e soprattutto Estate romana (2000), un film girato in una Roma svuotata e “imballata” per il Giubileo, tra Termini e Piazza Vittorio, attraversata dalla presenza candida e un po’ nevrotica di Rossella Or, attrice dell’avanguardia teatrale, che torna in città per ritrovare amici di un tempo, tra questi Victor Cavallo, che morì poco dopo. Garrone ha scelto di inserire nel cofanetto come extra un documentario di suo padre Nico, L’altro teatro, che raccontava proprio quella stagione, le cantine e la ribellione al teatro ufficiale, l’emarginazione e il fascino ambiguo di un mondo sommerso e disintegrato, ai limiti della sparizione. Un tema che poi attraversa tutto il cinema di Matteo, anche quello più scritto e strutturato della fase successiva, da L’imbalsamatore a Gomorra. “Nei miei primi film partivo dall’astrazione per andare verso la storia, adesso parto da una storia per vederne il disfarsi fino all’astrazione”. sintetizza.
Cosa rappresentano questi quattro film nella sua carriera?
Sono chiaramente i miei film di formazione. Ero stato assistente operatore per alcuni anni e venivo dalla pittura, a 26 anni girai il cortometraggio Silhouette, che divenne un episodio di Terra di mezzo. Non ho fatto scuole di regia, ma ho formato il mio gusto un film dopo l’altro. Facevo questi film con incoscienza e con passione.
C’è un tratto comune nel suo percorso?
Cerco di raccontare un territorio, delle persone e delle atmosfere, di interpretare la realtà per trasfigurarla: un fotografo di matrimoni napoletano, il teatro off romano, gli immigrati albanesi, le prostitute nigeriane nella campagna romana frequentata da pastori, ciclisti e altri strani personaggi sono il punto di partenza di questi piccoli film.
“Estate romana” deve molto al lavoro di suo padre Nico, noto critico teatrale del quotidiano “La Repubblica”, scomparso purtroppo all’inizio di quest’anno.
Estate romana è il mio film preferito, un film a cui sono particolarmente legato. L’ho realizzato anche grazie al lavoro di mio padre su quel mondo ed è per questo che ho inserito il suo documentario tra gli extra. Estate romana è la storia di Rossella Or che torna in città e cerca di riallacciare i suoi contatti con la realtà delle cantine anni ’80 e il teatro di ricerca. Nel film c’è anche l’ultima apparizione di Victor Cavallo, quasi il suo testamento perché morì poco dopo. C’era la vaga ispirazione del racconto di Melville, “Bartleby lo scrivano”, centrato sul rapporto tra Bartleby, figura spettrale e inquietante, e il suo datore di lavoro. E poi c’era il riferimento all’estate del 1980, l’estate di Nicolini. C’era una sorta di sceneggiatura, che stavo scrivendo con Massimo Gaudioso, ma a metà giugno decisi di iniziare a girare, anche se non avevamo finito di scrivere e anche se lui mi sconsigliava in tutti i modi di farlo.
Con il successo internazionale di “Gomorra” è cambiato qualcosa nel suo modo di fare cinema?
È un presto per dirlo. Vedremo al prossimo film se sarà un film vivo o morto, come diceva Fellini. Intanto con Gomorra si è amplificato un equivoco sul mio cinema, che sia una cinema d’impegno sociale o politico, mentre io considero e ho sempre considerato più importante il linguaggio e le immagini. Gomorra è sicuramente arrivato a un pubblico più popolare ed è stato visto e apprezzato in quaranta paesi del mondo, a parte il Giappone dove non l’hanno capito e non so perché. Ma Gomorra non mi ha trasformato in un regista di blockbuster.
Il prossimo progetto non sarà il film su Fabrizio Corona di cui si era molto parlato.
Sì, ci ho rinunciato perché penso che Corona sia un personaggio interessante ma in cui è già presente l’elemento della rappresentazione e quindi non mi permette di lavorare sul limite tra reale e virtuale, tra essere e apparire come vorrei. Adesso sto pensando, ma non ho ancora le idee molto chiare, alla storia di una ragazza che attraversa certi ambienti del nostro paese trattati dai media e dai giornali un po’ come l’Adriana di Io la conoscevo bene. Ma per favore non parliamo di remake, quel film è un capolavoro, un film che ho amato molto, ma tra quello e il mio progetto c’è lo stesso rapporto che c’è tra Paisà e Gomorra….
“Io la conoscevo bene” sarà anche il film di cui lei parlerà al Festival di Torino per la serie Figli & Amanti, in cui sei registi italiani hanno scelto altrettante opere importanti nella loro formazione.
In realtà l’ho visto in anni più recenti, quando fu restaurato, e quando Gianni Amelio mi ha chiesto di partecipare a questi incontri ero indeciso con un altro film, Vita da Bohème di Aki Kaurismaki, che ha una dimensione sospesa e strana simile a quella di Estate romana. Kaurismaki è uno dei miei registi preferiti insieme a Paul Thomas Anderson, Tarantino, i fratelli Coen, David Lynch e Tim Burton. Gli italiani non li dico, perché altrimenti, se escludo qualcuno, poi protesta….
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