MATTEO GARRONE


Nasce da un fattaccio di cronaca – un nano ammazzato nei pressi della Stazione Termini dal suo amante e dalla fidanzata incinta – L’imbalsamatore di Matteo Garrone, applaudito alla Quinzaine e promosso da Variety con una recensione assai lusinghiera. Ma lo trasforma completamente: rendendo ambigua, quasi indefinibile, la relazione tra i tre personaggi, in uno sbandamento esistenziale dove i destini si svuotano di senso.
L’imbalsamatore è l’opera quarta – con uno scatto di maturità innegabile – di un autore da sempre originale, ma che finora aveva scelto una linea di cinema “marginale” e di documentarismo-finzione lavorando con non professionisti o con attori a cui chiedeva di levarsi la maschera. “Lo faccio anche stavolta, nel senso che cerco di confondere il personaggio con la persona, ma la differenza sta nella sceneggiatura, scritta con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, e per la prima volta molto strutturata”. Oltre che nella presenza di una produzione vera, la Fandango di Domenico Procacci, che ha investito sulla stima costruita attorno a Matteo dal suo lavoro precedente (Terra di mezzo, Ospiti, Estate romana).
Ne è venuto fuori un quasi-noir, un film dove, nonostante lo stile metafisico e sospeso, l’azione e la passione hanno un ruolo non irrilevante. Ma è il contesto – lo squallore delle location, sulla Domiziana, in provincia di Caserta; il laboratorio di tassidermia con gli animali impagliati e i cadaveri nelle celle frigorifere – a dare corpo a questa storia d’amore inespressa.
Il film esce in Italia il 6 settembre, distribuito da Fandango. A Roma anche al Nuovo Sacher di Nanni Moretti.

Quanto ti sei allontanato dai fatti realmente accaduti?
Credo di averli completamente trasformati mantenendo solo l’anima. Lì c’erano molti elementi che rischiavano di diventare cliché: l’eroina, il fatto che il ragazzo si prostituisse… insieme agli sceneggiatori, l’abbiamo trasformata nella vicenda di un ragazzo debole che viene affascinato dalla personalità forte dei due, al limite del plagio intellettuale, ma alla fine è lui a sfruttare la situazione. Sia l’uomo che la ragazza sono alla ricerca della bellezza e disposti a manipolare per averla: questo fa di Valerio una specie di dark lady.

Ti sei ispirato al cinema classico: dal noir al mélo?
Sì, ho pensato a film come La strada scarlatta di Fritz Lang o Laura di Preminger. Per questo ho anche inserito la presenza della camorra. Credo che Lynch si sarebbe divertito a raccontare questa storia. Però fondamentalmente è una fiaba, una fiaba nera dove l’orco finisce per diventare la vittima delle sue presunte vittime.

Come hai scelto i luoghi: la Campania e Cremona?
Ho cercato un’ambientazione rarefatta, sospesa nel tempo e inquietante che mi sembrava rimandasse al cinema noir. Per la prima volta ho girato anche in set costruiti.

Il mestiere dell’imbalsamatore è descritto nei dettagli.
Ci ha aiutato un vero tassidermista, Enzo Cicala, di Napoli. Quel lavoro è quasi una forma d’arte, ma è una creatività che confina con la morte. Gli animali imbalsamati, poi, comunicano anche un senso di insidia che è insito nel personaggio dell’imbalsamatore.

autore
21 Maggio 2002

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