VENEZIA – Sembra di sentire l’eco della “pittura” e della bellezza tutta di Barry Lyndon, ma anche la maniacale cura sofisticata dei dettagli de Il profumo. Master Gardener – di Paul Schrader, Fuori Concorso alla Mostra – non omaggia né cita questi titoli filmici, ma l’opera li respira e espira, consapevole o forse no, comunque offrendo grande piacere allo spettatore, che però non si trova immerso “solo” in un tripudio estetico, ma anche in una vicenda dalle maglie e schermaglie interpersonali e interiori tutt’altro che candide e incantevoli come lo sono i giardini che il signor Narvel Roth (Joel Edgerton), orticoltore della dimora storica di Gracewood Gardens, cura come un impeccabile innamorato e per cui “Il giardinaggio significa credere nel futuro” e “il cambiamento arriverà a tempo debito”.
Master Gardener è ufficiosamente il “terzo capitolo” di un’opera plurale cominciata con First Reformed e fatta seguire da Il collezionista di carte, film tutti presentati a Venezia. In comune hanno il porre centrale un personaggio descritto da Schrader come “uomo solo, in una stanza”, archetipo esplorato fin dal Travis Bickle (Robert De Niro) di Taxi Driver (di cui ha scritto la sceneggiatura). “Molti anni fa ho trovato questo personaggio in una commedia europea, di Sartre, e lui (nei miei progetti) entra sin da Taxi Driver: esce, rientra, lo rivisito e invecchia con me. È un processo di invecchiamento, di come il personaggio evolva, e spero di aver concluso la mia storia con lui”, spiega Schrader, che stasera – 3 settembre – riceve anche il Leone d’oro alla Carriera.
Non si può parlare del film senza porre una luce regina su “Il giardino, la metafora più antica esistente nell’arte, tutto ha inizio nel giardino: soprattutto se si pensa a un personaggio che desidera nascondersi, e tutti i miei personaggi lo fanno. Ho pensato di prendere un personaggio come il suo (quello interpretato da Edgerton) e metterlo in un giardino per vedere se potesse essere perdonato: un ex nazista perdonato in un giardino da una persona nera (il personaggio di Quintessa Swindell). Con l’arte creiamo situazioni ipotetiche su cui possiamo rimuginare, quindi si tratta di un’idea ipotetica associata al giardino”, spiega il regista.
Per Sigourney Weaver (Mrs. Norma Haverhill), la frase: “Il giardinaggio significa credere nel futuro”, quando letta in sceneggiatura “ho pensato fosse un’illuminazione, un inizio fantastico per la storia, in cui la vita sembra contenuta e controllabile e Maya è l’impedimento; ma, quando dice la frase, ho capito si sarebbe trattato di amore. Ho letto la sceneggiatura ed è stata una rivelazione: era diversa da qualsiasi mai letta prima, aveva una struttura verticale, leggera in superficie ma capace di andare molto in profondità. Norma è uno dei personaggi più belli che abbia mai avuto”.
E, sempre sul giardino, Joel Edgerton dice: “Non so voi, ma aver visto, ascoltato, la discussione sull’evoluzione e decadenza delle piante mi ricorda il fatto che, come spettatore, trovi la mia via dimensione all’interno di questa storia; io proietto i miei sentimenti rispetto alla violenza potenziale o al fatto che le cose possano crescere e essere floride. È qualcosa che riesco a capire, come soggetto parte del film, e ritrovo i miei sentimenti relativi al mondo in questa metafora, rappresentata certamente in modo personale”.
Ci sono le forme e i contorni della Natura, i Secoli che hanno disegnato la storia dei giardini che hanno scritto la biografia del gardening internazionale, una vera e propria filosofia di vita, che conduce fino al Giardino Selvatico, tale “solo in apparenza”. Nella scelta cromatica di Schrader spiccano spesso le gamme del “purple”, dal Cardinale all’Ultra Violet, tonalità che “a mano a mano” con il verde delle foglie tutt’intorno restituisce un senso di raffinatezza ma volitivo, proprio di creature delicate come ci appaiono essere i fiori.
Narvel Roth chiama il suo gruppo di lavoro per impostare l’asta di beneficenza annuale, che desidera superi le donazioni dell’anno precedente, sia per i pasti a cui sono destinate, ma anche per Mrs. Norma Haverhill: ecco che, per la prima volta, entra in scena – solo evocata per nome – colei che il Master Gardener desidera compiacere, una ricca vedova, ma non sola…
Decisamente particolari entrambi personaggi anche nella costruzione di trucco, parrucco e costumi: lui chiama subito alla mente un militare nazista – e non è, appunto, solamente un’estetica la sua, infatti nell’animo di Narvel sopravvive un passato… correlato al suo aspetto; e lei è una cotonata e borghese signora dall’allure un po’ snob, tipo da collana di perle e camicetta di seta avorio con annesso golfino di cachemire dalle tinte pastello, seppur con Roth sussista un dialogo che sta sulle note del “tu”, cortese ma tutto sommato informale, silentemente erotico a tratti.
“Ho un favore da chiederti”, afferma Norma, con un po’ di affanno nell’intenzione. E lui l’ascolta. “La figlia di mia sorella Betty ha avuto una figlia, vale a dire mia pronipote… “, che in poco tempo, spiega la signora Haverhill, ha subito importanti lutti famigliari, che l’hanno condotta verso “cattive compagnie” e “Maya (Quintessa Swindell), questo è il suo nome. Era affascinata da questo posto. Era incantevole”, dice ricordando quando frequentava Gracewood Gardens da bambina, e gli mostra una foto di lei piccola, bimba di sangue misto, come la stessa vedova precisa all’ orticoltore. “Vorrei che prendessi Maya come tua apprendista”, gli dice. “Quanti anni ha?”, ribatte lui. “Venti? No, di più”. “E come vorresti che rispondessi?”, rilancia il Master, assecondando, anche questa volta, la richiesta di Norma, che avrebbe piacere la cosa fosse da lui accettata, e così sia.
“La mia generazione che ha frequentato le scuole di recitazione ha guardato De Niro, i film degli Anni ‘70, e non ci sovveniva che fossero performance indelebili a causa o grazie alla sceneggiatura alla base: uno degli interessi a diventare attore è stato proprio questo. Qualche anno fa ero a NY e ho visto First Reformed, poi accade che lui (Paul Schrader) mi chiami e dica: ‘voglio tu sia parte della fine della mia trilogia’. La sceneggiatura crea una famigliarità e una serenità che si associa al caos connesso all’affrontare il passato e a tutte le questioni complesse del film. Sono sempre stato affascinato da questi argomenti, come la redenzione, per esempio. È stata una sfida. Mi è sembrato che la richiesta fosse di non portare trucchi ma una certa quiete, di consentire al caos che potesse avere atto. Mi sono sentito a mio agio, così come a disagio: sono grato per questo lavoro e ogni lavoro ci insegna dove finisce la nostra zona di comfort. Ero interessato allo spazio psicologico, all’aver fiducia in una persona e l’indicazione di Schrader di non aver pregiudizi sul passato ha creato un animo gentile: poi, certo, è da vedere cosa si meriti il personaggio”, considera ancora Edgerton.
“Sono stato parte di una generazione che ha scritto film anche molto violenti. L’idea di sé, di come partecipare alla nostra redenzione, è evoluta: abbiamo l’idea di quella cristiana attraverso il sangue, la sofferenza di come Cristo porti la redenzione, ma le cose evolvono e qui non c’è una fine così tanto violenta, trovando così redenzione. C’è quello (che succede) dentro e quello fuori dall’inquadratura e il ruolo della dea del male può convivere con lei (Maya), insieme alla canzone, quando suona: ‘non voglio mai lasciar questo mondo senza aver detto ti amo’, di questo tratta la storia”, aggiunge ancora il regista. Infatti, la piccola Maya, ora decisamente più che adolescente, ormai donna, si presenta inquieta, capricciosa, portatrice di scombussolamento nella geometrica esistenza del Master e per Swindell che interpreta il ruolo: “L’esperienza è stata di aggiungere elementi a un mondo già scritto e definito (da Paul Schrader). Ogni regista aggiunge qualcosa di diverso, lavorare con Paul è stato un sogno: man mano che cresco come attrice capisco come aver fiducia nei coprotagonisti, nel regista e Schrader fa un lavoro ottimo sulla scoperta del personaggio”.
L’autore americano – a commento del Leone d’Oro alla Carriera – dice: “Ci sono molti motivi per cui possiamo disconoscere i nostri figli, frutti. Sono stato fortunato, ho fatto i miei errori come tutti, ma i film sembrano avere una vita utile e questa è una cosa molto difficile: come si fa a far tornare una persona a vederli dopo 20 anni? Ci sono dei film che dobbiamo ri-guardare dopo anni e altri che invece hanno avuto una vita utile. Il Leone a me è per tutti gli aspetti del mio mestiere: sono stato anche un imprenditore, oltre che uno scrittore e un autore”.
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