E’ un inedito Valerio Mastandrea che recita tra napoletano e inglese, il protagonista di Tito e gli alieni, opera seconda di Paola Randi che torna alla regia dopo sette anni dal suo Into Paradiso, con una pellicola fantascientifica presentata al TFF in Festa Mobile e in sala dal 7 giugno con Lucky Red, che parla di rapporto profondo con le proprie emozioni e di lutto. Nel film Mastandrea veste i panni di uno strano scienziato, malinconico e sospeso, che da quando ha perso la moglie vive isolato nel deserto del Nevada, in una zona vicina all’Area 51, il mitico luogo misterioso dove il contatto con gli alieni, col mondo Altro in tutti i sensi, è possibile. Lì passa intere giornate seduto con le cuffie sulle orecchie accanto ad un’antenna puntata verso il cielo; ufficialmente dovrebbe lavorare ad un progetto segreto per il governo degli Stati Uniti, ma in realtà rimane fissato nel suo disperato tentativo di captare, tra i suoni che provengono dallo spazio, la voce della moglie che non vuole dimenticare. L’isolamento totale è il suo modo di affrontare il dolore e la perdita, mentre il deserto che lo circonda è un luogo di rappresentazione della memoria e della disperata ricerca di una direzione, in una dimensione sospesa tra la paura di dimenticare e quella di andare avanti. Il suo unico contatto con il mondo è Stella (Clemence Poesy), una ragazza che organizza matrimoni per i turisti a caccia di alieni; finché un giorno la sua quotidianità monotona viene sconvolta dall’arrivo da Napoli dei due giovanissimi nipoti rimasti orfani, Anita e Tito, spaesati e anche loro alla ricerca di una personale ricostruzione dopo la perdita lacerante.
“Valerio è perfetto per il ruolo: unisce ad una umanità fortissima una buona dose di ironia, e quella vena di malinconia fondamentale per il personaggio”, sottolinea la regista che racconta come il film nasca da vicende personali che l’hanno costretta ad interrogarsi sul modo di affrontare la paura della perdita: “Il film nasce da un’immagine, quella di mio padre che negli ultimi anni della sua vita iniziava a perdere la memoria. Un giorno l’ho sorpreso mentre fissava il ritratto di mia madre, scomparsa da più di dieci anni, per cercare di conservarne il ricordo. Così mi è venuta l’immagine di quest’uomo, solo, che fissa un’antenna e rimane immobile in contemplazione dello spazio”. Ma anche se parla di elaborazione del lutto e di perdite importanti, Tito e gli alieni, ricco di rimandi al filone fantascientifico degli Anni ‘80, riesce a farlo con un certo umorismo agrodolce e una leggerezza a tratti poetica. “Quando si perde la memoria, si smarrisce anche l’identità. Tutto ciò che prima era reale si scompone e assume caratteristiche nuove”, sottolinea la regista. “Mio padre era un uomo di straordinarie risorse, capace di grande intelligenza e fantasia, ma anche di irriducibile leggerezza. Così ho cercato di immaginare la realtà attraverso i suoi occhi, mi sono lasciata trasportare nel suo mondo e nel modo in cui avrebbe ricostruito la storia. Non poteva che nascerne un film di fantascienza, un genere di cui sono appassionata fin da bambina. Da sempre sono una grandissima fan degli effetti speciali alla Rambaldi e ho provato a sperimentarli anch’io durante le riprese”. Un genere, la fantascienza, di cui Valerio Mastandrea non è certo un grande amante, anzi nei confronti del quale ammette di provare una certa angoscia. Nonostante questo, rivela, appena letto il copione ne è rimasto folgorato. “All’inizio ero incuriosito dal genere fantastico, ma dopo sole dieci pagine mi sono emozionato profondamente per cose molto terrene. Ho trovato la storia poetica, e credo che il fulcro del film stia in quel tentativo, tutto umano, di mettersi in armonia con la propria emotività rispetto alle grandi perdite e delusioni”.
Tito e gli alieni – prodotto da Angelo e Matilde Barbagallo – è stato girato tra l’America, “in un piccolo villaggio del Nevada i cui abitanti sono realmente convinti che gli alieni aiutino i militari a sviluppare tecnologie a supporto dell’umanità”, e l’Almeria, in Spagna, proprio affianco alla zona dove Sergio Leone ricostruiva le sue ambientazioni western. “Abbiamo prodotto il film, spiegano, perché il cinema italiano sta attraversando un momento di grande crisi nel rapporto col suo pubblico, e anche il tipo di commedie che garantivano fino a poco tempo fa incassi stellari sta fallendo. Riteniamo, però, esista la possibilità di un cinema originale, con un’anima sensibile e un linguaggio sofisticato, ma al tempo stesso adatto anche a un pubblico più largo e la cui vita in sala non si risolva nella visione durante i festival. Un’opportunità che abbiamo visto in questo film, realizzarlo è stata una bella sfida”.
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