Italiani no budget al festival di Torino. È già diventato un caso Tuttaposto del romano Franco Bertini, costato solo 5 milioni. E potrebbe diventarlo anche Lo scippo – guarda anche il sito – del bergamasco Massimo De Pascale, autofinanziato grazie a una cooperativa (Suburbia Multimedia) totalmente democratica dove ognuno guadagna in base alle ore di lavoro prestate indipendentemente dal ruolo. Un gruppo molto unito che ha saputo mescolare professionisti del cinema e assoluti debuttanti come una “nave scuola”.
Difatti, nonostante il 35 mm e il montaggio classico, Lo scippo è un film davvero in presa diretta con la realtà. Scritto e diretto da un regista che non ha timori a definire autobiografica la storia dolceamara di Jo e degli altri ragazzi che gravitano attorno alla vecchia stazione delle corriere di Bergamo. Senza fissa dimora, tossica, prostituta occasionale, dedita a furtarelli e piccole truffe, orfana ma adottata dalle trans che si prostituiscono nella piazza, Jo (Iris Bado) vive senza tetto né legge ma con una straordinaria vitalità che contagia anche un liceale di buona famiglia. Un amor fou temperato dal lato sociale e di tragedia generazionale con squarci da cinema francese (viene in mente, forse anche per l’assonanza delle interpreti, La vita sognata degli angeli). Ma soprattutto, dato l’argomento, colpisce la totale assenza di moralismo.
Ancora in cerca di distribuzione, Lo scippo ha costretto il festival a una replica di mezzanotte perché molti spettatori paganti erano rimasti fuori dalla sala domenica sera.
Perché la scelta di un’ambientazione anni ’80?
Perché ho pescato nella mia memoria personale: dieci anni allo sbando, più o meno sprecati. Ma allora la vita di strada e anche la droga erano qualcosa di divertente, affrontati con un atteggiamento inconsapevole. Dopo le cose si sono incupite.
Sei partito da un luogo: la stazione dei pullman…
Da molti anni covavo queste storie, tutte vere: la ragazza ammazzata a bastonate, le prostitute. Nel frattempo ho girato cortometraggi. Poi, quando è arrivata la notizia che avrebbero distrutto il capolinea, che esisteva dal ’53 e che per noi era un luogo di vita unico, mi sono deciso.
Infatti nel film hai inserito anche il video della demolizione. Ma non hai voluto fare un documentario sporco.
Molti di quelli che hanno partecipato al film, vengono da quelle esperienze di marginalità. Per questo ci piaceva emanciparci in qualche modo da quella condizione. Inoltre per Bergamo l’esperienza era inedita: da noi parlare di cinema è come bestemmiare in chiesa. Quindi ho pensato a un progetto di formazione: impariamo a fare il cinema facendolo. L’abbiamo proposto a varie realtà locali ma nessuno ci ha creduto. Abbiamo girato per tre anni, con interruzioni, portando a casa il film pezzo dopo pezzo. Anche qualche produttore romano, che abbiamo sentito, puntava sul finanziamento statale e non su di noi. Solo Tele+ ci ha garantito 200 milioni, a film finito, dopo aver visto qualche spezzone.
Quanto è costato alla fine “Lo scippo”?
Quattrocento milioni: il cinema costa una follia se vuoi usare la pellicola. Ora le settanta persone coinvolte hanno una quota che corrisponde al tempo lavorato: io e il mio macchinista abbiamo la stessa quota.
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