CANNES – Si apre con una struggente citazione da Pasolini (“La coscienza sta nella nostalgia/ Chi non si è perso non ne possiede”), come accadeva anche in Rasoi, un suo lavoro del ’93 che oggi appare seminale, il nuovo film di Mario Martone, in concorso a Cannes con Pierfrancesco Favino, Francesco Di Leva, Tommaso Ragno. Di nuovo Napoli e di nuovo il Rione Sanità, già “visitato” con il celebre testo di Eduardo, per un ritorno a casa in cui la ‘nostalgia’ evocata nel titolo diventa sentimento pericoloso e anzi mortale.
Il romanzo postumo di Ermanno Rea – “il libro racconta la Napoli più cruda e ferina, ai piedi di Capodimonte, la Kasbah della metropoli, costruita su grotte, anfratti, androni oscuri, catacombe, strapiombi di tufo, bassi fatti apposta per ingoiare chi fugge”, così ne scrive Corrado Stajano – è stato proposto a Martone dal produttore Luciano Stella. Altre volte – ammette il cineasta – gli avevano suggerito adattamenti letterari (e tra i suoi titoli c’è anche L’odore del sangue da Parise): stavolta ha detto di sì costruendo un labirinto dove la vita e la morte coabitano e danzano. La camorra spadroneggia in questi vicoli ma c’è anche spazio per un prete coraggioso che va a stanare i guaglioni casa per casa per recuperarli alla normalità e sottrarli all’arruolamento. E’ un prete che esiste davvero ed è ispirato a padre Antonio Loffredo (venuto anche qui sulla Croisette con alcuni dei suoi ragazzi) già raccontato nel documentario Rione Sanità. La certezza dei sogni di Massimo Ferrari. Francesco Di Leva, che con Martone aveva lavorato nel Sindaco, dà tutto se stesso nel ritratto di questo volitivo ed energico sacerdote. Molta parte del film è proprio costruita sul rapporto tra lui e il protagonista Felice Lasco (Pierfrancesco Favino) che torna a casa dopo 40 anni per rivedere l’anziana madre (Aurora Quattrocchi). Straniero in patria, ormai parla un italiano imperfetto, si è convertito all’Islam, è un imprenditore ricco, al Cairo ha una moglie innamorata che lo aspetta. L’incontro con la madre innesca la tenerezza di un accudimento tardivo – bella la scena in cui la sveste e la lava come una bambina – ma anche i ricordi che riaffiorano a fiotti. Tra questi soprattutto l’amicizia con il coetaneo Oreste diventato un boss camorrista, o’ Malommo (Tommaso Ragno): insieme hanno condiviso corse in moto verso Capodimonte, scippi e infine un grave fatto di sangue. Proprio quello che ha portato Felice a lasciare precipitosamente Napoli per andare a lavorare prima in Libano quindi in Africa.
Come nel suo primo film Morte di un matematico napoletano, regista e personaggio si perdono tra le strade e le case di una città che è un suq. “Il racconto – spiega Martone che sarà presto al centro dell’Evento della Mostra di Pesaro – nasce dalla cronaca ma va verso un sentimento misterioso. Mi affascinava l’idea di fare un film non in una città ma in un quartiere, come se si trattasse di una scacchiera, e così in Nostalgia non appaiono strade, case o persone che non siano del Rione Sanità, un’enclave di Napoli distante dal mare. Tutto viene inghiottito dal quartiere, gli anni così distanti di cui si racconta, il Medio Oriente dove era finito il protagonista, i sogni, le sfide, le colpe. Ho invitato gli attori e la troupe a immergersi nel quartiere come se fosse un labirinto e a non temere di perdersi, c’è una forma alla Borges. Macchina da presa in spalla, abbiamo cominciato a percorrere le strade come se si trattasse di cinema del reale”. Il film vuole sperimentare e lasciare spazio agli incontri casuali: “Ci siamo buttati per strada, come nel Neorealismo e nella Nouvelle Vague. Ogni persona è stata scelta, capata”.
“Faccio fatica a parlare in termini razionali di questo film – ammette Favino – è stato ed è viscerale. Mi sono perso dentro la Sanità, luogo ammaliatore. Non è possibile piegare il Rione alle leggi del cinema, semmai il contrario. C’è stata molta libertà espressiva e ho scoperto cose di me che non conoscevo. Ognuno di noi ha un luogo che forse rappresenta il suo sé più intimo o quello dei suoi avi, un Sud del mondo dentro di sé, un altrove che può essere Il Cairo o Napoli”. E ancora Martone, che ha scritto il film con Ippolita Di Majo: “La Sanità è un luogo di Napoli che è caduto in ombra, un luogo di scontri criminali, una terra di nessuno che assomiglia al Far West. È un luogo di fantasmi, che mette in rapporto presente e passato. Il personaggio lascia questo luogo a 15 anni perché non vuole avere più niente a che fare con la Sanità e non rivede più sua madre. In questo ritrovarsi ha risuonato anche mia madre, che non c’è più, come mio padre è stato presente nel personaggio di Raffaele, il guantaio interpretato da Nello Mascia”.
Sul finale, da non rivelare: “Non sono riuscito a trovare un senso e mi sono affidato a Ermanno Rea. Lo ho seguito a occhi chiusi, ma ammetto che mi sono perso”. Come si perde Felice Lasco, che non riesce a partire da Napoli, anche se tutti lo incitano ad andarsene, anzi sogna di mettere di nuovo radici qui, di portarci la moglie (Sofia Essaidi): “Felice Lasco è un personaggio atipico nel cinema italiano, non è un eroe, è difficile capire le sue motivazioni. Avevo appena fatto Qui rido io, che è un film così completamente napoletano, ma Napoli può e deve essere tante cose, anche diverse ed ecco perché Favino può fare un personaggio di qui”. Del resto l’attore ha seguito un percorso linguistico preciso, parlando arabo, italiano con l’accento francese e poi ricadendo nel napoletano. “Il napoletano – spiega Favino – è una lingua che ha silenzi, ritmi, respiri, battito cardiaco. Il mio lavoro sul linguaggio non è solo virtuosistico perché parlare in un certo modo vuole dire far battere il cuore in quel modo. Mi sono messo a studiare l’arabo per questo film e ho scoperto che ci sono tante similitudini nella struttura della frase con il modo di parlare nel Sud d’Italia. Mi sono stati maestri Francesco Di Leva e Nello Mascia”.
Martone ci tiene a sottolineare la linea femminile di un film sull’amicizia tra uomini: “Le donne hanno una grande importanza, la sceneggiatrice Ippolita Di Majo, l’interprete Aurora Quattrocchi, la produttrice Carolina Terzi. Vi chiedo di guardare il lato femminile, l’anima del film contraltare dell’animus”. E Ippolita Di Majo aggiunge: “Il romanzo di Rea è un romanzo cornucopia, che contiene inchiesta, giornalismo, narrazione, noi l’abbiamo scarnificato progressivamente, per far confluire bellezza ed energia nella storia principale. La Sanità potrebbe essere qualsiasi posto del mondo, rappresenta le parti fragili e meravigliose che ognuno di noi trova dentro di sé. Il modo che Felice ha di stare con sua madre, ad esempio, appartiene molto alla sfera della cura femminile”.
Da ultimo Favino lancia un appello a favore della sala: “Quello che più è mancato in questi due anni di pandemia è la condivisione, il senso della comunità. La fiducia di stare vicino a qualcuno che non conosco per vedere un film. Dobbiamo dire chiaramente che il film cambia se lo vediamo su un elettrodomestico o in sala. Si va al cinema, come si legge un libro, per cambiare o per confermarsi in ciò che non ci piace, ma tutto questo non si può fare dal divano di casa propria. Per me il cinema è solo in sala perché lì mi abbandono e penso che il sogno di qualcun altro sia anche mio”.
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