Il 3 aprile 1924 nasceva a Omaha in Nebraska Marlon Brando Jr, figlio di un agente di commercio dalle conquiste facili e di un’attrice tanto brava quando dedita alla bottiglia, Dorothy Julia Pennebaker. Le frequenti assenze dei due fecero sì che il punto di riferimento del piccolo Brando fosse la donna di servizio, sviluppando in lui quello che Nanni Moretti avrebbe chiamato un “deficit da accudimento”, come il protagonista di Habemus Papam. Sta di fatto che avrebbe sviluppato un amore viscerale per la mamma al punto di voler recitare proprio per averne la considerazione, una forte contrapposizione col padre (che si chiamava Marlon come lui), la sindrome dell’abbandono quando la domestica si sposò e i genitori – sia pure solo per un periodo – si separarono. Cresciuto in un ambiente tutto femminile – aveva due sorelle più grandi -, studente ribelle (cacciato dalla scuola e poi dall’accademia militare), eccellente negli sport e nell’improvvisazione ma negato allo studio, riformato alla leva militare per un ginocchio in disordine, appena maggiorenne si trasferì dall’Illinois a New York sula scia delle sorelle, ma passò mesi dormendo da amici, su letti di fortuna, litigando spesso e costruendo instabili rapporti sentimentali di ambo i sessi. Nella sua autobiografia, del resto, Brando non negò mai la sua bisessualità, anche se irrideva questo tipo di classificazioni (“non fanno più notizia come invece accadeva negli anni ‘50”) e smentì con ironia un presunto love affair con l’amico Jack Nicholson.
Con Marlon Brando accade qualcosa di davvero mitico: se chiediamo a un ragazzo chi sia stato, quasi sempre scopriremo che lo conosce: c’è chi ha ancora il suo poster col giubbotto di pelle, il berretto ostentato sfrontatamente di tre quarti, ben saldo sull’adorata Triumph Thunderbird de Il selvaggio (1953); c’è chi lo ricorda con il cappotto beige e lo sguardo smarrito in Ultimo Tango a Parigi e molti per la voce cavernosa e la gentilezza che cela la minaccia all’inizio della saga de Il Padrino (1972). C’è perfino chi ne imita l’accento quando pronuncia “L’orrore, l’orrore” nell’ultima apparizione come Colonnello Kurtz in Apocalypse Now (1979). Il critico lo ricorda invece per la folgorante caratterizzazione di Kovalsky in Un tram che si chiama desiderio (Elia Kazan, 1951) o per l’Oscar vinto nei panni dell’ex pugile fallito Terry Malloy in Fronte del porto (ancora Kazan, 1954). E poi ci sono i momenti controversi di una carriera da divo che lo ha visto molte volte trionfare, cadere, risorgere: Marc’Antonio in Giulio Cesare, Emiliano Zapata in Viva Zapata, Napoleone in Désirée, il sottotenente Fletcher ne Gli ammutinati del Bounty, lo sceriffo Calder ne La caccia, il cinico Sir William Walker in Queimada di Gillo Pontecorvo (uno dei film preferiti dell’attore) e perfino come padre di Superman nella prima saga da Supereroi del cinema moderno. A ben vedere, per una carriera cominciata a Hollywood all’inizio degli anni ’50 (dopo un decennio di gavetta in teatro a New York) e continuata fino ai primi anni 2000 (muore per complicanze polmonari il 1 luglio 2004 a Los Angeles), i film brutti o sfortunati, le partecipazioni “alimentari”, gli eccessi caratteriali, prevalgono sui capolavori, su un totale di una quarantina di ruoli. Eppure sta in testa a ogni classifica degli attori più importanti di sempre e il suo mito travalica la semplice bravura e il carisma.
La ragione sta nella sua vita e nel suo rapporto con l’arte della recitazione. Se cercate nelle biografie americane ufficiali Brando figura come “attore e attivista” e questo sua attitudine sempre controcorrente ne ha fatto un modello dei “rebels without a cause” che sarà il tratto distintivo dei vari Paul Newman, Monty Clift, James Dean, che lo adorava e con lui ebbe un rapporto quasi sado-masochista. Del resto nel ’47 Brando militava a sostegno del nascente stato di Israele, si abbassava la paga al minimo sindacale in solidarietà con gli attori di teatro, nel ’63 prese parte alla marcia per i diritti degli afroamericani, fece campagna elettorale per John Kennedy, mandò Sacheen Littlefeather, una nativa in costume tradizionale, a ritirare al suo posto l’Oscar del ’73, chiamò Cheyenne la sua figlia prediletta e sposò una polinesiana impegnandosi a più riprese contro ogni tipo di apartheid.
Lo stesso impegno a mostrarsi diverso lo profuse nella recitazione, antesignano del Metodo Stanislavkij appreso dalla sua maestra di vita, Stella Adler. Alle prime armi in teatro alternava pigrizia e indolenza (la sua prima musa Tallulah Bankhead diceva “Era un meraviglioso attor giovane quando voleva, ma per la maggior parte del tempo non potevo nemmeno sentirlo”), ma poi era capace di sfoderare emozioni mai viste prima. Come quando passò un mese disteso in un letto d’ospedale per diventare credibile come paraplegico nel suo primo suolo sullo schermo, Il mio corpo ti appartiene di Fred Zinnemann del 1950. Come quando in Un tram che si chiama desiderio fece di una semplice canottiera un simbolo capace di dettar legge per decenni. O come quando in “Fronte del porto” riuscì a mettere insieme sensualità animalesca e fragilità quasi femminile nella caratterizzazione del suo antieroe Terry Malloy. In pochi anni aveva costruito un modello fatto di realismo ed eccessi che tutti tentarono di replicare: dal suo involontario alter-ego Paul Newman (l’Italia intitolò The Hustler, il primo film di successo di Newman, Hud il selvaggio per richiamare l’icona ribelle di Brando) a Robert De Niro e Al Pacino che fecero del “metodo” una sorta di Bibbia recitativa. Insomma quando parliamo del Mito-Marlon dobbiamo andare oltre i film, i premi, le bizzarrie (negli anni ’60 fu un emarginato a Hollywood, “unbankable” e quindi da tenere lontano), gli amori e le disgrazie legali o private. Lo ritroviamo nel museo delle cere di Madame Tussaud a cavallo della sua moto, lo vediamo come una statua della romanità quando pronuncia l’arringa scespiriana “Friends, Citizens, Countrymen”, ne avvertiamo l’odore, la rabbia, la disperazione quando scopre la sua forza fisica e la sua fragilità morale nelle interpretazioni che sentiva “sue”, ne sappiamo brutalità e generosità riservate a chi stimava. “Con lui – raccontava Gillo Pontecorvo – abbiamo rischiato più di una volta di accopparci; per fortuna lui aveva un coltello, ma io una pistola. Però la sera si prendeva cura dei miei figli come il più amorevole degli zii”. “Per anni non ci siamo parlati dopo Ultimo Tango – confessò Bertolucci – finché una volta a Los Angeles ebbi il coraggio di telefonargli: ‘Vieni, ti aspetto a casa, ora’ mi disse, senza nemmeno lasciarmi il tempo di chiedergli scusa”. Brando era un gigante dall’alto dei suoi 175 centimetri, un titano in lotta col suo tempo e con se stesso. Proprio per questo ci appare anche oggi come un mito fra troppi nani.
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