‘Mariupolis 2’, soggettiva postuma di Mantas Kvedaravičius

Il doc dell’autore lituano ucciso in Ucraina presentato nella Séance Spéciale: dopo "Mariupolis" del 2016, il documentarista era tornato nel Donbass, nel cuore della guerra


CANNES – È difficile, per chi una guerra non l’ha mai vissuta sulla propria pelle, ma ne ha tutt’al più “subìto” la bulimica – e spesso monobinaria – narrazione mediatica, non provare la sensazione di aver già visto tutto questo film, Mariupolis 2, il documentario postumo di Mantas Kvedaravičius, autore lituano ucciso nel Donbass (leggi articolo), dov’era tornato – dopo Mariupolis (2016) – per re-incontrare le persone conosciute e raccontate nel “primo capitolo”.

Ma poi… proprio nel nome del non conoscere un’esperienza, del solo poterne immaginare il profilo drammatico e dell’essere traboccante per le immagini dei tg, giunge in soccorso la consapevolezza del non sapere e l’empatia umana per esseri viventi omologhi a te. Così, la spossante lentezza, la ripetitiva fissità delle soggettive, la costante del silenzio la cui colonna sonora perenne è il suono delle bombe su uno sfondo estremamente prossimo, la mesta desolazione, non possono prendere il sopravvento come dati di fatto semplicisticamente sfiancanti, ma assumono tutt’altra fisionomia.

Mariupolis 2 – presentato nella Séance Spéciale, grazie a Hanna Bilobrova, fidanzata del documentarista scomparso, con lui al momento dell’uccisione, capace di riportare il girato e montarlo con il montatore di Mantas, Dounia Sichov – non è solo una testimonianza ma restituisce, proprio nella lentezza, nella fissità dello sguardo, nel silenzio e nella desolazione, la guerra, quella che – appunto chi non la conosce in prima persona – ne non può decodificare davvero né il tempo né il suono. 

Una chiesa battista – “cattedrale nel deserto” delle macerie – è il cuore di questo film e della piccola comunità di persone che lì ha trovato rifugio, nel senso letterale del termine, vivendo completamente – o quasi – nel piano interno e sotterraneo della stessa. Eppure la vita continua: il cielo è spesso celeste, le colombe giocano tra loro librandosi, qualcuno bolle dell’acqua sopra un fuoco creato con fortuiti pezzi di legna per dar vita a un piatto di pasta e qualcun altro sconfina dal perimetro e nei pressi, sempre e solo tra le rovine, incontra cadaveri di altri esseri umani, ma lo spirito di sopravvivenza in questa circostanza supera la pietas, almeno in apparenza, quando alcuni uomini s’accorgono che, poco più in là dei corpi, c’è un generatore di corrente, o qualcosa d’affine, che decidono di portare con loro, là, in quella casa del Signore che ha aperto le proprie porte come un ventre materno, e in cui la Fede e il momento delle preghiera ricorrono, per rendere grazie della protezione che Lui gli garantisce. 

Le quasi due ore di documentario mostrano, spesso, spaccati di racconto visivo che negli ultimi novanta giorni il mondo intero ha imparato a guardare – dall’informazione tv, dagli approfondimenti mediatici tutti -, qui osservati dall’occhio di una camera sempre in soggettiva, sempre a mano, in cui non si nasconde un contrasto fotografico e simbolico interessante, quello del buio e della luce: infatti, il film apre proprio da una ripresa in interni, un corridoio profondamente scuro, in fondo a cui un’apertura sull’esterno fende il nero con un chiarore luminoso, stridente con la certezza che là fuori, invece, ci sia tutto, tranne che la luce che illumina l’umanità. 

Mariupolis 2 – dovuto omaggio del Festival di Cannes 2022 ad un autore, alla sua raccapricciante fine, alla fine della sua arte di raccontare con il cinema – sceglie certamente di non restituire un racconto d’inchiesta, infatti nessuna delle persone che compaiono nel film viene mai interpellata, solo un uomo in poche sequenze e poi nessuno più: certamente una scelta, sicuramente la sensibilità di non turbare ulteriormente le anime di chi a una guerra sta sopravvivendo, ma mancanza per chi guarda di poter – almeno un po’ – agganciare davvero lo stato d’empatia emotiva e psicologica che il racconto pratico – come si lavano?, quello cerebrale – cosa pensano?, quello relazionale – come si convive così forzatamente tra estranei?, avrebbero potuto restituire per “costruire” un ponte – sì teorico, ma certamente più solido – tra chi la guerra la vive e chi la guerra la guarda (da casa propria) e basta.  

20 Maggio 2022

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