MARIO MONICELLI


Mario Monicelli, il Leone alla carriera, lo tiene su un tavolino del suo soggiorno romano. Insieme al Leone d’oro per La grande guerra (1959). Fa finta di non ricordarsi né l’anno né la circostanza. “Ma poi non importa”. Anche di Dino Risi, quasi coetaneo, amico da una vita, “inventore” a pari merito della commedia all’italiana, dice di non ricordare molto: non si sente un raccontatore di aneddoti. Un po’ però si appassiona quando viene fuori che questo sarà un ritratto senza obblighi agiografici. Senza usare parole grosse come “maestro” o “autore”. Certo fuori luogo per un’arte povera come il cinema.

Parliamo liberamente. Cerchiamo di essere non dico cattivi, ma comunque non celebrativi.
Uno dei difetti, che poi è anche un pregio, è che Risi non dà tanta importanza all’immagine, alla scelta dei luoghi, eccetera ma a quello che deve raccontare e a come lo deve raccontare. Non è un cultore dell’immagine, come non lo è quasi nessuno di coloro che hanno fatto le commedie all’italiana. L’immagine era al servizio del racconto, dei personaggi e delle storie. Ogni immagine non era in sé e per sé importante. Risi poi girava avendo il montaggio del film in testa, grande pregio dei veri registi.

Ricorda la prima volta che vi siete incontrati?
Credo di sì. Credo di averlo incontrato in Via Condotti, avevo visto il suo primo film, l’episodio sulle cameriere che andavano a ballare di Amore in città. Non mi ricordo più chi ci aveva presentati. Io gli ho detto che avevo visto il film e che mi ero compiaciuto. Lui era milanese e un pochino scherzavo sul fatto che fosse venuto da Milano a Roma a fare il cinema e poi sul fatto che aveva la fortuna di nascere cinematografaro fin dall’inizio ma che però aveva studiato medicina. Mi sembrava che fosse un punto di vista abbastanza curioso e interessante, il suo, come infatti poi si è rivelato: questo cinema molto secco, che non vuole commuovere.

Una certa freddezza.
Sì, distacco, freddezza, anche sobrietà di linguaggio e di espressione. Gli hanno permesso di raggiungere degli obiettivi di cui ci si è accorti con notevole ritardo, come avviene quasi sempre tra i recensori – che vogliono essere chiamati critici, ma sono solo recensori – italiani per la commedia all’italiana. Prima hanno esagerato trattando Risi, Germi e Comencini, e anche me, come spazzatura. Poi quando dalla Francia è venuto fuori il boom della commedia all’italiana allora si sono slanciati. Capolavori! Colonna del cinema italiano! Eccetera!

Senza esagerare: qualche capolavoro c’è, però.
Capolavori nel cinema non ne esistono, ci sono buoni film, buoni racconti, il cinema che fa emozionare. È un’arte minore, un’arte applicata all’industria. A volte, certo, può raggiungere dei bellissimi risultati, ma il cinema non fa capolavori e nemmeno Risi.

Allora diciamo così: qual è il miglior risultato di Risi?
Anni difficili. Per come è raccontato, ha un respiro più vasto, racconta anche tutto il cambiamento antropologico della società italiana, Risi l’ha colto in pieno. E poi Profumo di donna.

“Il sorpasso” no?
Il sorpasso non appartiene ai primissimi, secondo me. Ha questo pregio di essere molto secco, asciutto, di non tergiversare mai e di non uscire mai fuori tema. È un bellissimo film, duro, amaro.

Dino Risi Voi vi rendevate conto che stavate inventando qualcosa?
Noi della commedia all’italiana no. Quelli del neorealismo, del cinema impegnato, sì. Perché glielo dicevano tutti, mentre a noi non ce lo diceva nessuno. Pensavamo solo a fare dei film divertenti, ci divertivamo moltissimo a farli, eravamo ripagati dal fatto che avevano un successo clamoroso dappertutto, specialmente in Italia. Dopo ci hanno spiegato che era un genere sublime, che era un bisturi che affondava nella società italiana.

Le è capitato di rubare qualcosa a Risi?
Credo di sì. Ad esempio, questo trattare i personaggi con molta secchezza senza essere troppo tenero.

Il famoso cinismo…
Ecco. Senza volerlo uno parla, vede i film e trae qualche cosa che gli è consono.

Consono, appunto. Perché il cinismo era proprio di carattere.
Sì, mi confortava il fatto che lo fosse anche lui. E che le nostre cose erano capite. Noi ci siamo rivolti a un pubblico non acculturato, diverso da quello a cui si rivolgevano i De Santis, i Visconti. Il nostro era un pubblico molto semplice, che però capiva.

Possibile che Risi non avesse una debolezza, un cedimento?
Ce l’aveva. Anzi, direi che lui rivelava nei rapporti umani una certa partecipazione che io, per esempio, non ho mai avuto. Si preoccupava inaspettatamente se un amico stava male e io l’ho attribuito al fatto che lui aveva fatto il medico, e se uno sceglie la medicina bene o male una ragione c’è. L’ho scelta anch’io medicina, ma dopo sei mesi me ne sono andato di corsa perché non me ne fregava niente. Risi, invece, aveva una sua propensione altruistica. Io credevo che questo suo sbrigativismo e cinismo andasse fino in fondo, invece se si accorgeva che l’amico era a mal partito, lui partecipava, io infierivo.

Lei il Leone alla carriera l’ha avuto nel ’91. Undici anni prima. In un certo senso l’ha bruciato.
Mah, perché non gliel’hanno dato prima anche a lui non si sa.

L’intervista – di cui pubblichiamo uno stralcio – farà parte del volume Dino Risi. Maestro dell’equilibrio e della leggerezza, a cura di Angela Prudenzi e Cristina Scognamillo, edito dalla Fondazione Scuola Nazionale di Cinema-Centro Sperimentale di Cinematografia in occasione della consegna del Leone d’oro alla carriera.

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26 Luglio 2002

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