VENEZIA. Mario Martone torna a indagare e rileggere il passato italiano, dopo le vicende del Risorgimento narrate nel precedente Noi credevamo, presentato in Concorso a Venezia 67, per attingere elementi utili a interpretare il presente. Con Il giovane favoloso – titolo ispirato dalla scrittrice Anna Maria Ortese in visita alla tomba di Giacomo Leopardi collocata nel Parco Vergiliano a Piedigrotta – affronta la contemporaneità della riflessione dell’intellettuale e poeta recanatese. Peraltro Martone già teatro aveva messo in scena il testo leopardiano “Operette morali”, in tournée teatrale per tre anni, anche a New York e Parigi.
Il film, terzo titolo italiano in Concorso, restituisce la forza e l’attualità dei testi e del pensiero di Leopardi ripercorrendo i momenti essenziali della vita del poeta e scrittore. A interpretarlo è Elio Germano impegnato in una prova non facile, quella di restituire innanzitutto quel corpo sofferente fin da giovanissimo, e poi il furore creativo, la depressione, la forza polemica, le fughe, gli abbandoni. Tutto nell’arco di una breve ma intensa esistenza che si dipana dalla ricca biblioteca paterna di Recanati, luogo di “studio matto e disperatissimo” e prigione da cui scappare, alla Napoli del colera e del Vesuvio. Una città dove, secondo il regista, Leopardi trova più facilmente conforto ed empatia, grazie anche alle cure dell’amico Antonio Ranieri (Michele Riondino), esule napoletano.
In mezzo ci sono alcuni ‘capitoli’ che rivelano il percorso esistenziale, creativo e culturale dell’artista: Firenze con la delusione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis) e Roma con il definitivo distacco dai parenti. Una vita tutta intrecciata con la scrittura e le sue opere, di cui il protagonista Elio Germano ci propone brani e versi, mentre il suo corpo sempre più sofferente si rattrappisce, si chiude in se stesso, insofferente del soffocante clima familiare e dei salotti conformisti. Un intellettuale profetico, preveggente in conflitto con i sostenitori delle ‘magnifiche sorti e progressive’.
Il film, in sala con 01 dal 16 ottobre, è costato 7 milioni e mezzo di cui circa due milioni messi a disposizione dagli imprenditori marchigiani. Nell’ottimo cast figurano anche: Valerio Binasco, Paolo Graziosi, Massimo Popolizio, Iaia Forte e Isabella Ragonese.
Perché un film sulla vita di Leopardi?
Viene da un percorso lungo, da un cantiere cominciato 10 anni fa, che non avrei mai pensato di aprire perché quel secolo da giovane non è che mi attraesse e invece il film Noi credevamo ha segnato l’apertura di questo cantiere ottocentesco. E sempre durante questo tempo la voce di Leopardi mi sosteneva, così ho messo in scena le “Operette morali” e sorprendentemente lo spettacolo ha avuto un grande riscontro di pubblico. Mi ha dato così il coraggio di affrontare la sfida del film, anche se combattuto visti i possibili rischi.
Come si è rapportato con i testi leopardiani?
Con Ippolita di Majo ho scritto la sceneggiatura utilizzando le lettere, le poesie, lo “Zibaldone”, gli scritti giovanili, tutto ciò che c’è nel film, anche dal punto di vista drammaturgico, deriva dalle parole di Leopardi e da quelle che gli venivano rivolte. C’è poi questo intenso rapporto tra la scrittura e il corpo. Quello che lui scrive è tutto autobiografico, ha una temperatura non solo intellettuale, ma umana, vibratile, ribelle. Perciò i suoi testi nel film non sono uno sfondo letterario, ma fanno parte dell’azione del personaggio: quante volte le poesie come “L’infinito” o “Aspasia” sono state agite sul set.
Il suo film propone un Leopardi moderno, contemporaneo.
Leopardi sente da subito tutte le gabbie che nella vita di ciascuno si formano trascorsa la ‘fanciullezza’ – la famiglia, la scuola, il lavoro – e che si vivono venendo a patti, indossando le maschere di cui parla nelle “Operette morali”. Lui rompe queste gabbie, e ne paga il prezzo preferendo che la sua anima viva. Da lì la scrittura, il pensiero generati per rompere qualsiasi gabbia, anche quella della sua malattia. Per non parlare del rapporto con l’illusione amorosa, tutte sfide che la vita ti mette davanti e dunque le infelicità.
E Leopardi come si rapporta?
Spingendo verso la vita, trovando una chiave di senso alla propria esistenza. E quando non ha più niente da perdere, durante il soggiorno a Napoli, sente la vita con tanta forza. E allora per vedere questo film non c’è bisogno di leggere un suo verso o conoscere la storia italiana dell’800, ma di ‘anema e core’, è tutto lì.
La parte napoletana sembra quella più libera per Leopardi e anche per il regista?
Ho affrontato un percorso. La prima parte, “dentro dipinta gabbia”, è la casa affrescata e questa biblioteca borgesiana che diventa una prigione con questi libri monocromi verticali e questi mattoncini orizzontali tipici delle cittadine marchigiane, insomma questo insieme di libri e muri. Una prigione dove per la prima volta metto in scena una famiglia. Poi la parte morbida di Firenze e questo rapporto con l’amore, l’illusione e questa libertà che conquista dieci anni dopo, dove tutto è più libero, ma altre sono le ombre che appaiono. Poi la parte romana che mi sta molto a cuore. E poi Napoli dove Leopardi non ha niente da perdere e più il suo pensiero s’innalza più il suo corpo si rattrappisce. Entra in rapporto con la città, la natura, e questa famiglia stranissima, opposta a quella di Recanati, composta dalla sorella di Ranieri, il vecchio greco, il cuoco. E poi si finisce sotto il Vesuvio e lì è caso fino a un certo punto, c’è qualcosa di fatale nella sua vita. Insomma è un viaggio.
C’è chi ha visto un rapporto omosessuale tra il poeta e l’amico Ranieri. Lei come l’ha affrontato?
Con una scelta insieme estetica ed etica, cioè di stare a quello che le carte raccontano, siano esse di Leopardi o di altri che scrivono di lui. Non abbiamo sovrapposto interpretazioni, lasciando che le scene alludessero o lasciassero libero lo spettatore d’interpretare, perché Leopardi da solo bastava.
La figura dell’amico Antonio Ranieri ha parecchi detrattori, lei non è tra questi.
Ranieri viene considerato da alcuni un approfittatore. Io l’ho conosciuto in Noi credevamo perché, dopo la morte di Leopardi, diventa amico di Cristina di Belgioioso con la quale ha un’intensa corrispondenza e si rivela uomo solido, forte con un intenso spirito meridionalista. Ranieri viene poi criticato per avere scritto un libro, “Sette anni di sodalizio”, in cui parla per lo più della malattia del poeta e dell’assistenza fornita. Lo ritengo invece un aspetto importante perché la malattia fa parte della vita di Leopardi, non si capisce la sua scrittura se non a partire proprio dal suo corpo e dalla sua esperienza vitale. E ciò lo rende un autore così vicino a noi.
L’apparizione del femminiello napoletano nell’iniziazione sessuale di Leopardi è un fatto vero o inventato?
E’ l’unica scena che non ha a che fare con le carte leopardiane, ma è un’altra carta poetica di Enzo Moscato, “Partitura” dedicato a Leopardi a Napoli e immagina la scena in cui Ranieri conduce l’amico in questo lupanare dove avviene l’incontro con un ermafrodito. E’ l’unica libertà che mi sono concesso. Ci sono molte soglie nella sua vita che avrei potuto oltrepassare. La nostra decisione, mia e della sceneggiatrice, è stata di quella di non varcarle, di stare insieme allo spettatore. Ranieri raccontando il sodalizio con l’amico scrive “Leopardi è morto casto” e per tanti così mette fine a tutte le chiacchiere sulla loro amicizia. Chi lo può dire? Comunque non ha importanza. E’ importante mostrare queste soglie.
Che rapporto c’è tra questo film e il precedente Noi credevamo?
Tutto il film è guardato e raccontato storicamente con uno sguardo leopardiano con l’idea della caduta delle illusioni ideali, ma anche la forza vitale della spinta vitale che le alimentava. Insomma in tutti questi anni di cantiere ottocentesco la voce di Leopardi mi ha sempre accompagnato. Mi spingo a dire di più: oggi mi sembra che ho fatto tutti film leopardiani, mi sembra di avere lavorato tanto per arrivare a questo film.
Non crede che ci sia una vicinanza di Leopardi con la figura intellettuale di Pasolini?
E’ molto chiara la differenza tra i due, trovo invece simile la posizione di Leopardi in rapporto con la società culturale del suo tempo. Pasolini diceva di sé “io sono un tollerato”. Era mal sopportato perché non apparteneva a nessun coro, perché poteva dire qualcosa di non allineato a pensieri schierati in un senso o in un altro. E lo stesso accade a Leopardi che certo era considerato ma non rispondeva al bisogno di una società idealista di coloro che lottavano per l’Unità d’Italia. Del resto c’è uno suo sguardo feroce verso persone che hanno anche grandi meriti, ma Leopardi vedeva oltre. Oggi vediamo il risultato delle “magnifiche sorti progressive”: abbiamo tutte le macerie che le illusioni rivoluzionarie e idealiste hanno provocato. Allora non era possibile. Questo sfalsamento di Leopardi con il suo tempo gli ha provocato aspre critiche, anche dopo la sua morte.
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