MARIO BALSAMO


Genova un anno dopo. Mentre i no global tornano nella città ligure, non smettono di circolare nuove immagini sulle giornate del luglio 2001.
Tra cui quelle del cortometraggio di fiction La zona rossa di Mario Balsamo, uno degli autori del film collettivo Un mondo diverso è possibile.
Presentato qualche settimana fa al Genova Film Festival, è stato autoprodotto con il supporto della Zeta Produzioni e montato da Paolo Maselli. Racconta la storia di Marco (Stefano Opedisano), un 48enne genovese ex settantasettino che si è allontanato dalla politica e vive, come racconta il regista, “in una sorta di autosospensione dal mondo”.
Il 19 luglio 2001 vorrebbe andare alla manifestazione contro il G8, ma è intrappolato in casa e nel suo palazzo sono partiti tutti.
Pieno d’impotenza si abbandona di fronte alla tv ma una telefonata inaspettata lo scuote. E’ Lisa (Francesca Cutolo), una ragazza che ha fatto il suo numero per errore e gli racconta quello che sta accadendo fuori. Una sua seconda chiamata, durante gli scontri del 20 luglio, lo convince a liberarsi dalla sua prigionia interiore e, finalmente, a uscire di casa.
Balsamo firma anche la regia del documentario Il villaggio dei disobbedienti, prodotto dalla Fondazione Cinema del Presente e girato tra lo Stadio Carlini di Genova e il campeggio Carlo Giuliani di Porto Alegre, che punta al festival di Venezia o a quelli di Viareggio e San Sebastian.

Perché una fiction su Genova?
La zona rossa L’idea mi è venuta un anno fa, durante il viaggio di ritorno da Genova dove sono stato 8 giorni. Lì ho avuto la sensazione che tutte le speranze di giustizia siano realizzabili. L’esperienza mi ha stravolto in modo positivo e volevo universalizzarla mettendo in scena la vicenda di Marco. Il messaggio è chiaro: se rimani in ascolto puoi riprendere il contatto con ciò che avviene fuori, tornare ad immergerti nel reale. Non vengo dal ’77 ma, in un certo senso, per me Genova è stato questo. Ho scritto il corto nei ritagli di tempo mentre lavoravo al montaggio di Un mondo diverso è possibile, e l’ho girato in una settimana con un budget di 4 milioni e grazie alla disponibilità di Opedisano che ha lavorato gratis.

“Il villaggio dei disobbedienti” è uno dei rari filmati in cui non si vedono gli scontri.
Perché l’esigenza di fondo è quella di far emergere le idee del popolo di Seattle di solito soffocate dal clamore della violenza di piazza. Il filmato si snoda in due atti: il primo, quello della protesta, girato allo Stadio Carlini, ha un montaggio più frammentato e più teso anche nelle scelte musicali, il secondo si svolge a Porto Alegre, mette a fuoco l’aspetto della proposta e chiama alla riflessione. Entrambi i luoghi sono come astronavi atterrate sulla Terra, piccole metropoli sorte dal nulla, popolate da nomadi che prefigurano forme di autogoverno.

La zona rossa Ti senti vicino ai “media attivisti” che hanno filmato i fatti di Genova?
Si. A Genova, ma ancor prima a Seattle e a Praga, i media attivisti hanno avuto una funzione fondamentale nella denuncia della violazione dei diritti. Però sono troppo attratti dagli scontri, proprio come i media ufficiali a cui si contrappongono. Manca un lavoro creativo sulle proposte del movimento, sull’impianto ideale che lo sorregge.

Fai parte della Doc/it, l’Associazione dei Documentaristi Italiani. Come vedi lo stato della produzione di documentari in Italia?
Abbiamo una grande tradizione documentaristica che va da Zavattini, fino a Zavoli, Emmer e Gregoretti. Ma l’anomalo bipolarismo Rai/Mediaset ha determinato un forte calo della produzione. Oggi i canali tematici offrono budget inadeguati e una circuitazione ristretta. Per rivitalizzare il settore c’è bisogno di produttori indipendenti che conoscano bene il mercato europeo. Certo, non mancano esempi positivi: penso a Italian Soldiers di Francesco Cabras e Latina/Littoria di Gianfranco Pannone. Sono molto diversi tra loro ma entrambi sconfinano in un genere che mi appartiene molto: la docufiction.

autore
19 Luglio 2002

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