Ines (Sandra Hueller) è una rampante giovane manager tedesca di stanza a Bucarest che si sta occupando della delocalizzazione di un’industria petrolifera per una società di consulting, un’operazione che porterà sicuramente al licenziamento di molti addetti; Winfried (Peter Simonischek) è suo padre, ex insegnante di musica che ama i travestimenti (gira con i denti finti nel taschino della camicia), le battute idiote e gli scherzi da prete. Si sentono poco e quando si vedono è un disastro, anche perché lei si vergogna di lui. Ma un giorno papà decide di fare una visita a sorpresa in Romania per il suo compleanno. Si rende conto di quanto lei sia infelice e allora si inventa un alter ego senza freni, Toni Erdmann, che comincerà ad apparire nella sua vita creando situazioni assurde e imbarazzanti.
Più che una commedia vera e propria è una farsa familiare con retrogusto politico Vi presento Toni Erdmann, il film di Maren Ade che, a partire dal suo debutto in concorso a Cannes, ha conquistato le platee di tutto il mondo: vincitore di cinque Premi Efa e chiamato a rappresentare la Germania agli Oscar, esce da noi il 23 febbraio, proprio a ridosso degli Academy Awards. Ne parliamo con la trentanovenne regista, alla sua opera terza, con questo film che The Hollywood Reporter ha definito “la migliore commedia tedesca mai vista”.
I tedeschi, almeno nella vulgata, non sembrano essere molto famosi per il loro senso dell’umorismo, una caratteristica piuttosto anglosassone.
Beh, ogni nazione pensa di avere il senso dell’umorismo giusto, ma vi assicuro che anche noi tedeschi sappiamo ridere anche se spesso ci capita di nasconderlo.
In questo caso l’umorismo è affidato al personaggio di Toni Erdmann, l’alter ego del padre, totalmente disinibito, pazzoide e capace di mettere in crisi il rigido e spietato mondo del business a cui Ines appartiene.
Winfried è buffo, verbalmente e nella corporatura, e usa l’umorismo a volte per aggredire gli altri, altre volte per nascondercisi dietro. Sotto sotto questo film è un dramma che diventa commedia, Winfried scherza perché è disperato, non riesce più a comunicare con sua figlia e il ridicolo è la sua ultima chance.
Lei dice giustamente che il film ha un sottotesto drammatico, ma a Cannes venne percepito fin da subito come una commedia e le risate in proiezione sembravano rompere un tabù.
Non ero consapevole di aver rotto un tabù. Per me il film era malinconico, pesante, a volte mi veniva da dire ‘smettetela di ridere, state un po’ seri’. Però sono felicissima che sia arrivato al concorso di Cannes e che sia stato venduto in tanti territori. Adesso ha cominciato il suo percorso negli Stati Uniti e anche lì lo apprezzano, si vede che ha qualcosa di universale.
Vi presento Toni Erdmann dura due ore e 42 minuti, si è mai chiesta se questa lunghezza sia eccessiva?
Sapevo che la lunghezza poteva essere un problema ed ero pronta a reazioni di vario tipo. Ma poi ho capito che accorciandolo sarebbe sembrato ancora più lungo perché perdeva un certo livello di complessità. Secondo me ogni film deve lasciare un margine di libertà allo spettatore che deve poter passeggiare dentro la storia. Era importante che ci fosse tempo, prima e dopo le gag di Toni.
Attraverso il personaggio di Ines lei ci mostra l’alienazione e la disumanità di un modello di business oggi prevalente, quello delle multinazionali che massimizzano i profitti a scapito della qualità della vita dei lavoratori.
Ho fatto lunghe ricerche su vari ambienti di lavoro per mettere a fuoco il personaggio di Ines, ho incontrato molte persone, specie donne, e mi sono resa conto che questa scelta avrebbe avuto un impatto politico. Ines lavora in una società di consulting, ha delle grandi responsabilità ma allo stesso tempo non si pone molte domande. Questi manager sono convinti che sia più importante salvare un’azienda e aumentarne il profitto che salvaguardare i posti di lavoro. E se parli con loro pensano di aver ragione, pensano che qualsiasi alternativa sia irrealistica.
Perché ha scelto di ambientare la vicenda a Bucarest?
Dopo la caduta del comunismo, la Romania è stata invasa dalle multinazionali in modo brutale e rapido, c’era un intero paese in vendita. E’ la classica situazione dei tedeschi che vanno all’estero a dire alla gente cosa deve fare. Inoltre amo molto il cinema romeno e mi sembrava in qualche modo di conoscere già Bucarest.
Non c’è anche un aspetto personale, magari autobiografico, nella storia dell’incomunicabilità tra un padre e una figlia?
Sono partita dalla voglia di raccontare una situazione in cui due membri di una famiglia si sentono estranei e devono ricominciare da capo, azzerare il loro rapporto. E’ normale fare anche qualche riferimento a se stessi perché di famiglia ne abbiamo una sola. Mio padre ha un discreto repertorio di battute e di gag, usa anche lui i denti finti, glieli ho regalati io, erano un gadget di Austin Powers. Spesso li mette al ristorante per confondere il cameriere e una volta ci è andato anche dal dentista.
Quali sono i suoi modelli cinematografici?
Ho gusti molto vari, non sono una cinefila, mi piacciono i libri, il teatro, la vita reale. Tra i cineasti amo Cassavetes e ho rivisto varie volte La dolce vita per ispirarmi. Un altro modello è stato Man on the Moon di Milos Forman, che racconta la storia del perfomer americano Andy Kaufman, che si era inventato un alter ego irriverente.
Il doppio, il doppelgänger, è un classico della cultura tedesca. C’è qualche fonte di ispirazione letteraria?
Il doppio è un’opportunità interessante per un regista e per l’attore che lo interpreta. In questo caso abbiamo dovuto fare un sottile gioco dì contenimento perché Toni è esuberante, molto esuberante, ma era importante che tra le righe si vedesse Winfried. Così Peter Simonischek, che è un bravissimo attore, doveva fingersi un cattivo attore. Tra l’altro la parrucca che indossa è quella che avevamo usato ai provini, è abbastanza schifosa, ma era proprio quella giusta per lui.
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