LOCARNO – Marco Tullio Giordana arriva a Locarno77 con La vita accanto – basato sul romanzo di Mariapia Veladiano, scritto per il cinema con Marco Bellocchio e Gloria Malatesta. È un film dalle tinte scure, che ammaliano, in cui le prassi del comportamento umano e le complessità dell’animo compiono una coreografia complice, che si riflette in una trama non ricorrente né scontata, affidata soprattutto alla perfezione del ruolo di Sonia Bergamasco, zia Erminia, pianista di fama, e alla persuasiva interpretazione di Beatrice Barison, al secolo pianista, che nel film è Rebecca, la nipote, nella sua età più adulta, l’adolescenza.
Il cast si completa con Paolo Pierobon, fratello gemello della musicista e marito di Maria – Valentina Bellé, mamma di Rebecca, bimba di cui seguiamo l’arco di vita dalla nascita: la piccola è interpretata da Sara Ciocca nella fase dei dieci anni, momento cruciale dell’esistenza di questa famiglia, che vive tutta insieme nella magnifica e inquietante Villa Monaci, dimora accompagnata da una sinistra leggenda.
Non sempre la nascita di un bebé fa rima con gioia, e così purtroppo accade per quella di Rebecca, nei primi Anni ‘80, a Vicenza: se per papà Osvaldo, ginecologo, e per la sodale Erminia, la piccola è un fagottino di felicità, per la mamma sembra innescarsi un male oscuro, che la porta a tenere a distanza la sua creatura, a nasconderla per proteggerla, perché nata con un’ampia macchia sulla guancia destra del viso. Il mistero comincia qui, parrebbe la mamma sia caduta in una espansa depressione post partum: tra poche parole, sguardi persi, ore passate stesa a letto, trascorre un decennio, fino alla scelta che svolta definitivamente la situazione.
Se Rebecca è stata dapprima tenuta rinchiusa nella villa perché Maria s’è sempre opposta affinché non fosse portata fuori, per un senso di protezione che le fa dire: “uno sguardo può uccidere … non la mando al circo”, arriva un momento – l’età della scuola elementare – in cui la zia e il papà prendono la decisione di non dar più seguito alla mamma; è qui, nel suo primo banco di scuola, che conosce la rossa Lucilla, preparata alla vita nonostante i pochissimi anni, e figlia di mamma separata – Michel Cescon.
Se “buon sangue non mente” la piccola di casa, nel frattempo, dimostra un talento naturale per lo stesso strumento che fa di Erminia una punta di diamante della musica, ma il veleno serpeggia tra le stanze di quel luogo circondato da statue di nani di pietra. Giordana – che a Locarno riceve anche il Pardo alla Carriera – sceglie anche di innestare, con fascino e sapienza, un susseguirsi di visioni oniriche notturne, che compiono il disegno di un cerchio esistenziale cominciato ad accennarsi nel principio del film.
La musica è tema centrale, si crea da quel nucleo un’armonia complessiva e complessa: nella scrittura creativa, e poi visiva, ha pensato al concetto di partitura musicale applicata al cinema? E, in generale, qual è il suo personale rapporto con la musica?
Quando ero ragazzo ho studiato chitarra classica, strumento che sembra quasi uno strumentino da spiaggia, ma in realtà è molto difficile da suonare perché, per la produzione del suono, un’imprecisa posizione della mano sinistra dà luogo a delle stecche, delle sporcizie: quindi, suonare bene è veramente molto difficile. Poi l’ho abbandonata, come succede, e l’ho ripresa nel tempo: la musica mi ha sempre appassionato e l’ho continuata a sentire anche al di là del mio mestiere. Non potrei concepire la mia vita senza la musica e il cinema ha una parentela molto stretta con la musica, perché segue una specie di scansione: così come nella scrittura musicale ci sono la divisione in battute, i movimenti interni, le linee interne, il rallentando, l’accelerando, il crescendo, il diminuendo, ecco tornare tutte cose molto simili anche nel montaggio cinematografico.
Come è molto presente un dato sonoro musicale, c’è anche una scelta di silenzi, di lasciati ad intendere, di non detti, che però non sono omissioni, ma il ricorrere a un linguaggio non verbale, fatto di sguardi, di simboli visivi, di mimica.
Io considero musica anche le pause e i silenzi. Secondo me, l’essenza del recitare è proprio questo, cioè quella parte che un regista affida ai suoi interpreti, alla loro capacità di trasmettere, al di là di quello che dicono: penso che spesso il linguaggio sia usato per nascondersi, non per comunicare, lo usiamo per dissimulare qualche cosa che poi, magari, comunque involontariamente trapela. Quindi, in un film quello che si dice non è sempre quello che veramente si dice, perché di più si trasmette con uno sguardo dell’attore, un’indecisione dei corpi, o una scelta nel muoversi. È proprio questa abilità che io cerco spasmodicamente, dedicando moltissimo tempo a fare provini per trovare i miei interpreti, perché penso siano l’essenza della scrittura di un film, più che le scene, più che i costumi, più che l’ambientazione, più che la scansione dell’inquadratura: la scelta di quali attori tu metti davanti alla macchina da presa è fondamentale.
C’è un simbolo nel film, una macchia: quanto le ha affidato il valore della metafora, e qual è il suggerimento che offrirebbe al pubblico affinché potesse leggerla nella maniera più prossima all’essenza effettiva, alle sue intenzioni?
Dunque, la macchia è un angioma, dal punto di vista medico: quando questa piccola Rebecca, la neonata, viene al mondo, questa macchia che le deturpa il viso, per il resto è una bambina bellissima, stupenda, e quando cresce la vediamo diventare meravigliosa. Naturalmente, Rebecca non vede la propria macchia, quindi la porta con naturalezza, è un’estensione del proprio corpo, non è così sconvolta, se non perché vede gli altri che si sconvolgono, soprattutto la famiglia. E perché sono così sconvolti? Perché questa macchia non è di Rebecca: è la macchia che hanno dentro di loro, e questa macchia sul volto della bambina evoca la propria inerzia, la propria mediocrità, la propria paura di non essere genitori compiuti, una cosa che abbiamo provato tutti, chi ha figli lo sa; aspettarli, vederli nascere, ci fa sempre sentire imperfetti, col dubbio continuo di non fare la cosa giusta. Quindi, è anche un film che evoca tutta questa cosa. Naturalmente, nel film ci sono elementi patologici e di sofferenza molto forti: nella vita normale spero non sia così per la maggior parte delle persone.
Infatti, c’è anche un discorso sulla verità, quella più viscerale che sta dentro i meandri profondi delle famiglie: questo discorso del ‘famigliare’, del ‘nascondere il mostro intimo’, potrebbe portare alla mente il sapore de I pugni in tasca di Bellocchio.
Nel cinema di Marco Bellocchio, fin dalle origini e continuamente, affiora il tema delle patologie, delle convulsioni, del groviglio amoroso e anche aggressivo che si nasconde dietro ogni famiglia: è molto presente. Penso che questo sia un dato che appartenga a tutte le famiglie, è il luogo degli amori impossibili, perché la cosa più naturale per i membri di una famiglia è volersi bene, amarsi, ma non potersi amare per via del tabù fondamentale dell’incesto: pronunciamo pure questa parola tremenda, che impedisce la consumazione naturale di questo amore. Il perché sia nato questo tabù è cosa molto complessa e legata probabilmente al diritto di proprietà, per cui sarebbe complesso addentrarsi in questo tema, ma constato che spesso i sentimenti, anche più nobili, più puri, più generosi, in famiglia finiscano per marcire e dare luogo a manifestazioni patologiche, di rigetto, di rifiuto, di conflitto irrisolvibile in qualche caso.
Sonia Bergamasco sappiamo essere musicista non solo per ruolo ma proprio per formazione: lei porta il talento ma anche un realismo che inquieta, una tenerezza che commuove, una disciplina che impressiona. Come ha concertato Erminia per essere capace di un assolo che dura per tutto il film, ma anche parte di un coro?
Dunque, noi abbiamo lavorato insieme per la prima volta ne La meglio gioventù, in cui addirittura ho cambiato il ruolo che doveva interpretare, facendola diventare una pianista: non era una pianista nella sceneggiatura originale, e che lei interpretai Mozart, in quel film, come Ravel o Schumann, per me è stato molto importante. È stata quasi una rivelazione, quella di un’attrice con un ventaglio di possibilità vasto. Così ho pensato immediatamente a lei, quando si è trattato di interpretare Erminia: intanto, interpreta una concertista famosa, affermata nel mondo, che vuol dire essere assoggettata a una disciplina ferrea; i musicisti sono come gli atleti, si devono allenare continuamente: l’aspetto dello studio è preponderante sull’aspetto della pura esecuzione e Sonia ha proprio questa caratteristica fisica, questa bellezza dolcissima però anche feroce allo stesso tempo, una ferocia su se stessa, sull’autodisciplina. Nel mio film sente di dover supplire alle carenze della madre della bambina, di dover diventare una specie di madre vicaria, ma allo stesso tempo con una vita personale molto libera seppur, infine, senta sempre l’obbligo di ritornare in quella casa, una specie di prigione interiore dalla quale non si può staccare; mentre la giovane Rebecca capisce che la sua salvezza sarà proprio staccarsi da quella casa.
Qual è la simbologia di questa dimora, magnifica, dentro e fuori, ma che porta con sé anche una leggenda inquietante: insomma, perché è stata scelta quella casa, con che intenzioni simboliche?
Dunque, il romanzo era ambientato a Vicenza e io ho fatto molti sopralluoghi anche in altre città, finché sono poi ricaduto su Vicenza, una città bellissima, anche molto diversa dalle altre stupende città venete: è stato un luogo di ricchezza enorme nel Rinascimento, per il commercio della seta, quindi le grandi famiglie hanno restituito la città in opere, facendo costruire palazzi monumentali uno dietro l’altro, uno accanto all’altro, infatti con una passeggiata per Vicenza uno vede veramente i capolavori dell’architettura dal Cinquecento al Settecento. In particolare, questo palazzo potrebbe far pensare… che questa patologia familiare esista in quanto sia abitata da una borghesia in disfacimento, ma non è così: questi traumi familiari sono in qualunque luogo, in qualunque famiglia, in qualunque città, in qualunque classe. Non è un problema di classe, è un problema interno all’esistenza della famiglia come struttura fondante del nostro stare insieme. Certo, questo contesto, così sontuoso, potrebbe far sembrare che tutto sia risolvibile, che le soluzioni siano a disposizione, e invece anche lì la sofferenza non è attutita dal contorno. Anzi, forse potenziato.
Questa casa l’ha scelta anche perché circondata dall’acqua?
Certo, l’acqua è molto importante, quindi anche nei miei sopralluoghi cercavo città dove ci fosse l’acqua; avevo anche trovato un bellissimo palazzo a Treviso, per esempio, e avevo pensato anche a Verona, a Padova, a un certo punto anche a Venezia, però, quando ho visto Vicenza, con i suoi tre fiumi, circondata da tre fiumi, ho pensato: ‘vabbè’, la storia è nata qui, qui è tutto giusto, dovunque metti la macchina da presa vedi delle cose bellissime’, quindi sarebbe proprio sciocco e autolesionista cercarlo altrove.
È un simbolo materno l’acqua, voleva ricordasse il liquido amniotico?
Non so se questa fosse l’idea di Maria Pia Veradiano, però l’acqua suggerisce questo, è l’elemento naturale nel quale siamo nati, è il nutrimento, è la protezione, è qualcosa che poi dobbiamo lasciare: è abbastanza straordinario come i neonati buttati in acqua nuotino naturalmente, perché sono abituati, si ritrovano in quell’elemento, e il nostro corpo è formato al 70% d’acqua, l’acqua è l’elemento vitale per eccellenza.
La vita accanto, una produzione Kavac Film, IBC Movie e One Art con Rai Cinema, prodotto da Simone Gattoni, Marco Bellocchio, Beppe Caschetto, Bruno Benetti, esce al cinema dal 22 agosto.
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