BARI – “…radere al suolo Cinecittà e gli Studios … se è vero che l’Italia è un Paese agricolo, che bisogno c’è di una cinematografia nazionale?”, sentenziava l’Ammiraglio Stone agli sgoccioli della fine del secondo conflitto mondiale.
Roma, giugno 1944: il Film Board, l’organismo che gli alleati hanno costituito per controllare il cinema italiano, si riunisce per la prima volta nel quartier generale a Via Veneto 33. Presenti, tra gli altri: il capitano Pilade Levi, futuro capo di Paramount in Italia, in rappresentanza dell’esercito americano; il regista Alfredo Guarini, rappresentante dei lavoratori dello spettacolo e dei partiti e dei movimenti clandestini che avevano partecipato alla lotta di liberazione; Alfredo Proia, rappresentante dell’industria italiana, in seguito Anica. Dopo avere ascoltato le posizioni di tutti, Stone comunica al Board la sua intenzione: fortunatamente, i membri del Board, in particolare Levi, italiano trasferitosi in America all’indomani delle Leggi Razziali, responsabile della divisione per la guerra psicologica a Roma, convincono l’Ammiraglio a desistere.
Marco Spagnoli ha scritto e diretto Hollywood, Cinecittà – 100 anni di cinema americano in Italia, Fuori Concorso al Bif&st 2023, una produzione Samarcanda Film, in collaborazione con Luce Cinecittà. Il doc racconta un secolo di Storia di cinema americano in Italia e dei rapporti tra le due cinematografie, dalla nascita fino alle moderne piattaforme OTT: come è cambiato il legame tra il nostro Paese e l’America e quale ruolo determinante abbiano avuto associazioni come Motion Picture Association (MPA) e Anica nel definire scambi artistici ed economici tra Europa e America.
Per Giuseppe Tornatore, tra le personalità intervistate nel doc: “Vista nella sua interezza, la Storia del cinema americano e del cinema italiano, e della loro attrazione, è una Storia molto articolata, molto interessante, molto più fitta nella tessitura di occasioni di collaborazione, e con diversi risultati, talvolta di grande successo, talvolta molto più articolati, anche molto più tormentati”.
Marco, dal lavoro di ricerca e dalle testimonianze, ha messo a fuoco quali siano le empatie e quali le divergenze tra le due cinematografie? Cosa ha tenuto connesse nel tempo le due parti?
La connessione è molto più profonda di quello che ci sia stato mai detto: soprattutto da un punto di vista industriale c’è un legame molto, molto forte. C’è stato un confronto costante, da molto prima di quello che noi siamo abituati a pensare con la Hollywood sul Tevere: in realtà, nasce dall’origine del cinema e il desiderio degli americani di venire in Italia a produrre ha radici economiche molto chiare.
Da che volano nasce l’idea del doc? Qual è l’esigenza che ha spinto in avanti lo sviluppo?
Nasce dal desiderio di Cinecittà e dell’MPA di celebrare il proprio centenario iniziato nel 2022, e di farlo con un prodotto italiano: ho fatto altri doc legati a questa storia e così mi hanno chiesto se avessi un’idea, che era per me raccontare questa storia, partendo dalle origini del Cinema Muto e da quel tipo di mondo che sembra molto pionieristico, ma in realtà lo era molto meno di quello che immaginiamo.
Il ruolo di Cinecittà nel tempo presente: qual è il peso degli Studi, non solo sul fronte creativo ma anche del mercato?
Per me è molto bello fare questo documentario oggi, e non anche solo dieci anni fa, perché oggi entri a Cinecittà e la trovi piena di persone, di produzioni, di vita, e quindi è bello poter raccontare questa storia oggi, mentre Cinecittà svolge un ruolo determinante: rappresenta sia la Storia che il futuro del cinema e questo doc lo dimostra, perché è un racconto epico di quello che è stato fatto e ci dà l’idea di quel che si potrà tornare a fare.
Tra le testimonianze raccolte, ce n’è una in particolare che le ha offerto uno spunto o una riflessione che non s’aspettava e/o magari le ha aperto altre strade da indagare nel doc?
Confesso che sono di parte: per me Gian Piero Brunetta è il più grande storico del cinema italiano, e forse anche europeo. Perché lui, a differenza di tanti bravissimi colleghi, è anche un collezionista, uno che s’è studiato le carte e i documenti, studiando sui libri di Lorenzo Quaglietti, uno storico scomparso prematuramente una trentina d’anni fa, per cui c’è un approccio strutturale al cinema, basato sulle lettere, sui contratti, sugli scambi commerciali, e questa cosa fa la differenza rispetto alla storia un po’ critica a cui siamo abituati, scoprendo che soprattutto ci fosse una natura economica delle cose, senza negare quelle artistiche, assolutamente. È un approccio strutturalista e di politica cinematografica, non ideologica ma economica appunto.
E invece parlando di materiale visivo, c’è qualcosa di inedito, magari scoperto in fase di ricerca, che ha aperto chiavi di racconto non pianificato in principio?
Sicuramente tutta la parte legata a Jack Valenti è abbastanza impressionante, del suo ruolo con Johnson alla Casa Bianca: lì capisci quanto il cinema sia organico alla politica negli Stati Uniti. Quella parte fotografica è davvero impressionante. Poi, mi colpiscono le immagini dei manager a Cinecittà: Lombardo che firma gli accordi con la MGM, testimonianza di un racconto molto emozionante di quello che avveniva tra Italia e America, per cui sono materiali molto significativi, così come le foto di famiglia, quelle dell’archivio personale di Lodi-Fé o della famiglia Levi, che ti fanno rendere conto dei rapporti di queste persone con quel cinema.
A proposito dei Levi, c’è la testimonianza di Gioia Levi, figlia di Pilade e Carol Guadagni Levi, agente italiana di punta, dagli Anni ’50 il ponte per portare le grandi star americane a girare in Italia. Una storia di cinema e di vita, che dallo spy passa per il romance. C’è lo spunto per uno spin off, ci ha pensato?
Io ho raccontato un po’ quella storia in The Italian Jobs, concentrato sulla Paramount: sì, sicuramente è pazzesca e sì io vorrei raccontare le storie di questi personaggi; al di là del loro ruolo con la CIA, i Servizi Segreti, erano uomini di un’eleganza e di un fascino proprio straordinari, era davvero gente che sapeva fare il cinema, questo era l’importante. È una storia emozionante, sarebbe molto bello fare una serie: io ho scritto un soggetto di serie su queste figure. Poi c’è Luigi Luraschi, che è quello che a un certo punto trova centomila dollari in più sul suo conto corrente della Paramount e dice al figlio: ‘c’è un amico, tra i tuoi amici registi italiani, che vorrebbe fare un film con noi?’ e viene risposto ‘Bernardo Bertolucci’ e così gli produce Il conformista. La cosa incredibile è che quel mondo di persone ha avuto una grande lungimiranza. Questo documentario racconta di persone che hanno fatto grande il cinema senza prendersene i meriti, stando sempre un po’ dietro le quinte, ma con intuizioni geniali. Pilade Levi, per esempio, è stato quello che aiutò la Magnani nell’Oscar, che lei vincerà proprio per un film Paramount, La rosa tatuata. Il merito che mi prendo è di aver raccontato la storia di queste figure. Queste persone hanno fatto la Storia del cinema ma non si sono mai raccontate e quindi era giusto rendergli omaggi per aver fatto davvero tantissimo. È una storia dell’atlantismo, di quello che è successo dopo la Seconda Guerra Mondiale e di quale sia stato il lavoro di queste persone.
I testimoni presenti nel racconto documentario, tra gli altri, sono: Vittorio Cecchi Gori, Aurelio De Laurentiis, Franco Mariotti, Riccardo Tozzi e Nicola Maccanico, AD di Cinecittà, per cui: “Il mondo americano parte dall’industria per atterrare sulla cultura. E sul valore immateriale, molto rilevante, della cultura stessa si basa la capacità di creare valore dell’industria. Il mondo del cinema italiano ha avuto un percorso tendenzialmente inverso, noi siamo partiti dai valori culturali, dai valori alti e immateriali della cultura, per costruirci un’industria. In questo c’è la chiave fondamentale di questo rapporto. La rilevanza che oggi l’Italia ha per il mercato americano conta ancora di più, perché in un mondo che è diventato molto più ampio, quindi nel quale la dimensione globalizzata del mercato riduce percentualmente il valore dell’Italia, resta il nostro valore culturale, quello che noi rappresentiamo, e questo punto è privilegiato con gli Stati Uniti. Ed è per questo che io credo che i rapporti che l’MPA ha sempre in qualche maniera supportato, tra l’industria cinematografica italiana e quella americana, vadano oltre la semplice dimensione di mercato. Credo che il valore di Cinecittà nella Storia del cinema sia proprio il fatto che Cinecittà sia un luogo. Alla fine, nel momento in cui l’industria americana ha deciso di allargarsi, di muoversi in un altro territorio, ha scelto l’Italia, ha scelto Roma, ha scelto Cinecittà. Quell’epoca storica è stato il primo vero ponte fisico tra l’America e il resto del mondo. Cinecittà – in maniera ovviamente molto diversa -, dopo il marchio di Hollywood è il marchio più famoso del mondo collegato a degli Studi, dei teatri di posa”.
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