PESARO – Commedia che vira al grottesco, bordeggia il noir ed esplode – letteralmente – nel pulp e nello splatter, L’ultimo capodanno di Marco Risi è uno dei film scelti per l’Evento speciale di Pesaro, dedicato al cinema di genere italiano con titoli che vanno da Per un pugno di dollari a Indivisibili. L’ultimo capodanno chiude il decennio dei ’90 – l’altro titolo per questa decade è La notte americana del dottor Lucio Fulci, documentario di Antonietta De Lillo – ed è un film-caso, ispirato a un racconto di Niccolò Ammaniti, ambientato nella notte dell’ultimo dell’anno (si sente l’approssimarsi millenaristico del 2000) in un comprensorio di appartamenti sulla Via Cassia dove si incrociano i destini di una varia umanità non proprio encomiabile in una escalation di stupidità e violenza parossistica. Lo splatter deborda nel regolamento di conti tra quelli dell’ultimo piano e gli inquilini del piano terra, la borghesia italiana si autodistrugge in preda a smanie di protagonismo, la tv è sempre più trash, idiota e urlata. L’esplosione, quasi provvidenziale dati i presupposti, arriva grazie a una caldaia e al personaggio sfigato di Ossadipesce, quello che nessuno invita alle feste e che risulta l’unico sopravvissuto come in un day after apocalittico, quando cammina tra le macerie e in mezzo al fumo dell’ormai ex condominio. Uscito in sala con l’Istituto Luce a marzo del 1998, a soli tre giorni venne ritirato per decisione del regista e fu fatto nuovamente uscire un anno più tardi senza migliorare di molto i risultati inaspettatamente scarsi.
Risi, come spiega questo insuccesso?
Non so, forse l’uscita a poche settimane da Titanic che aveva creato un clima romantico, un bisogno di bontà, non giovò a un’opera che spazzava via anni di commedia facendola esplodere. Uno dei grandi fautori del film era stato Angelo Guglielmi, presidente del Luce, che si era innamorato del libro di Ammaniti Fango e mi propose di usare uno dei racconti. Con il mio socio Maurizio Tedesco della Sorpasso leggemmo il libro e mi soffermai su L’ultimo capodanno dell’umanità, un racconto libero e pazzo. Guglielmi pensava a un film che ricordasse in qualche modo Strange Days di Kathryn Bigelow anche quello ambientato a capodanno e con un finale catastrofista. Con Niccolò scrivemmo la sceneggiatura e al dialogo delle olive ascolane ridevamo così tanto da non poterci fermare.
Era un dialogo totalmente pulp, molto in stile Tarantino, regista che aleggia in vari punti della vicenda.
Forse se L’ultimo capodanno non fosse stato un film italiano, sarebbe piaciuto di più. Anni dopo, un fotografo diede a Tarantino il dvd de L’ultimo capodanno, ma a lui piacevano Corbucci, Tessari, e altri simili, non so nemmeno se l’abbia mai visto.
Cosa ricorda delle riprese?
Fu bloccato il viadotto di Corso Francia per quattro notti di seguito per girare la scena del pullman dei tifosi che quasi travolgono il Ciao di Ossadipesce.
Ossadipesce era Max Mazzotta e faceva parte di un supercast corale.
Il cast in realtà esplose dopo. Anche Monica Bellucci sarebbe diventata una diva con Malèna. Ma il film portò fortuna a tutti. A Beppe Fiorello, a Claudio Santamaria, a Giallini. Fiorello per noi fece due provini perché al primo non eravamo del tutto convinti. Max Mazzotta era al primo film, fece poi il protagonista di Paz!. Ricky Memphis invece aveva già lavorato con me per Il branco, quattro anni prima.
Un ruolo importante lo assolve l’enorme caldaia del comprensorio, quasi un personaggio a se stante.
Una creatura dello scenografo Luciano Ricceri, scenografo di Scola e di mio padre. Girammo a Cinecittà, con tutta la cartapesta, era un film di immaginazione, forse anche questo ha sconcertato il pubblico.
Il libro di uno scrittore in auge, un bel gruppo di attori, gli spunti di commedia. I presupposti c’erano tutti.
Nel ’94 avevo fatto Il branco, un film antipatico, difficilissimo, che rientrava nel solco di Mery per sempre. Uma Thurman a Venezia voleva interrompere la proiezione perché lo stupro di gruppo le sembrava intollerabile. Il tentativo era di raccontare le cose non dalla parte della vittima, ma dei carnefici. Anche se la violenza non si vedeva mai. Il personaggio che sembra più ingenuo, onesto, quello a cui ci si affezionava, il ragazzo che ha fatto domanda per diventare carabiniere, finisce per essere il peggiore, perché per farsi accettare dal branco coinvolge mezzo paese nello stupro. Ci eravamo ispirati a una storia vera successa a Marcellina.
Tornando a L’ultimo capodanno come andò la decisione di ritirarlo dalle sale?
Decisi di ritirarlo dopo il primo weekend per tentare un sortita più in là che però fu altrettanto disastrosa. Con Ammaniti andammo anche dalla maga della Maglianella per sapere chi avesse gettato i suoi strali su quel film e Niccolò scrisse poi un racconto, uscito in una raccolta di vari autori, da cui vorrebbe fare un film. La maga, che mi aspettavo vecchia megera e invece era alta ed elegante, muoveva il pendolino sulle facce dei membri della troupe e del cast per cercare chi avesse messo il malocchio, ma non c’era nessun risultato. Poi alla fine, al momento di andare via, tirai fuori un nome che c’entrava di sponda col film e la maga disse che poteva essere questa donna la causa dell’insuccesso. Uscendo dalla casa, anche se non avevamo concluso nulla, mi sentivo rasserenato, sollevato.
Quel film ha influito in qualche modo sulla sua carriera?
Dopo quel film ne ho fatti altri, per esempio nel 2009 Fortapàsc sulla vicenda del giornalista Giancarlo Siani, un film che tornava nella tradizione dell’impegno sociale e che incassò 700mila euro, però è tuttora molto visto.
Il suo lavoro più recente è la serie tv L’Aquila Grandi speranze.
Anche quello è andato al di sotto delle aspettative. Forse la gente de L’Aquila voleva un documentario, e poi è arrivato alla fine delle tante commemorazioni del terremoto.
Come vede il cinema italiano contemporaneo?
Ci sono segni di ripresa, registi nuovi, oltre ai celebrati Garrone e Sorrentino.
Faccia qualche nome.
Edoardo De Angelis con Indivisibili, è stato mio allievo al Centro Sperimentale. Poi Matteo Rovere, Sydney Sibilia.
Sono registi che praticano il film di genere in una versione rinnovata.
Una volta il genere era definito, oggi è sempre un ibrido col realismo.
Quale genere le piacerebbe affrontare?
Sarebbe bello fare un western contemporaneo, nelle nostre campagne e non in Spagna. Quando arrivi in aereo a Catania si vede un paesaggio riarso dove viene voglia di mettere un cowboy che passa al galoppo.
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