Marco Paolini


Noto al grande pubblico soprattutto per le dirette televisive dei suoi lavori di teatro civile sulla tragedia del Vajont e sul caso Ustica, Marco Paolini continua a viaggiare attraverso percorsi originali e trasversali tra teatro – la sua “matrice, il luogo in cui nascono le parole” – e cinema, televisione, Dvd. Paolini ha infatti trasportato la sua straordinaria capacità interpretativa anche nei filmati dei suoi spettacoli, in cui ha indagato aspetti cruciali della storia politica e sociale italiana per portarli a un pubblico più ampio possibile, e ha incontrato occasionalmente il cinema, con partecipazioni in Manila Paloma Blanca di Daniele Segre, Caro Diario di Nanni Moretti, I piccoli maestri di Daniele Luchetti e Il toro e La lingua del Santo di Carlo Mazzacurati.
Con quest’ultimo ha recentemente realizzato una serie di tre ritratti filmati di grandi scrittori italiani: Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto e Luigi Meneghello, presentato in questi giorni al BellariaFilmFestival AnteprimaDoc insieme agli “Album” e agli “Appunti Foresti”, realizzati con Giuseppe Baresi. Mentre 12 dei 16 Album realizzati sono già usciti (per i restanti 4 gli eredi di Goscinny, ai cui testi si ispiravano, non hanno concesso la liberatoria), i ritratti di scrittori usciranno tra breve con Fandango.

Secondo Davide Ferrario (in giuria a Bellaria), che ha lavorato con lui per i “I-Tigi canto per Ustica”, Marco Paolini va considerato “non tanto per quello che fa, ma per come lo fa. E’ un grande attore e con lui non resta che lasciargli suonare “la sua musica” e creargli attorno una struttura visiva. Mi piacerebbe molto fare un film con lui…”

Paolini, nel suo lavoro propone un’analisi politica, storica e sociale della realtà italiana. Trova che il nostro cinema lo faccia altrettanto bene?
Il cinema deve confrontarsi con un processo industriale, e in questo contesto è difficile far emergere le voci degli autori. Nell’industria culturale i ragionamenti liberi possono essere rischiosi, perché diventano facilmente oggetto di ricatto. Oggi si parla molto di censura televisiva, e il problema sta più nell’autocensura, indotta non da un regime simile a quelli del passato, ma da un regime diverso: la dittatura del mercato.

Ha mai pensato di avvicinarsi alla regia cinematografica?
No, innanzitutto la mia dimensione è quella dell’artigianato culturale, e si sposa male con un’organizzazione industriale come quella del cinema. Poi non ho alcuna attitudine al comando, e non potrei dirigere tante altre persone.

Negli ultimi anni c’è una grande crescita del cinema documentario, in termini di produzione, visibilità e incassi. Come interpreta questo fenomeno, che in parte la riguarda?
Se da una parte è positivo, dall’altra, nel momento in cui l’industria culturale punta su un settore inizia già in un certo senso a “contaminarlo”. Quando gli autori vengono inseriti in una catena di montaggio è difficile che non rimangano “inscatolati” al suo interno. Per essere indipendenti devono avere la capacità di mantenersi liberi o di trovare le giuste relazioni, che gli permettano di fare prodotti che non siano mobili Ikea.

Quali sono i suoi prossimi progetti? Continuerà a realizzare teatro civile?
Il teatro di narrazione non mi interessa più dal momento in cui mi hanno inserito in questa sorta di categoria. La cosa più importante per me è non replicare, ma fare sempre qualcosa di nuovo e di più rispetto al passato. Spesso succede che gli artisti – e questo accade soprattutto nel cinema – invecchino semplicemente occupando dei posti. Le uniche due strade che concepisco, invece, sono cambiare o diventare un classico.

autore
03 Giugno 2006

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