MARCO MULLER


“Fabrica Cinema è un laboratorio sotterraneo della cui attività non tutti – per fortuna – ancora sanno tutto: è soprattutto un multiculturale osservatorio di creatività giovanile, una tribù in cui sono a contatto nel Centro di formazione borsisti hongkonghesi, nigeriani, ipernewyorkesi, europei… un laboratorio che ha bisogno di partnership per sviluppare le sue poliedriche potenzialità.
Fabrica Cinema è finanziata dal gruppo Benetton (un gruppo privato che scommette in un campo complesso col suo Centro Ricerche di strategia della comunicazione) con accordi fondamentali di comuni linee editoriali con RaiCinema e la RTSI, la tv svizzera. “Realizziamo corti, lungometraggi, documentari, fiction: il nostro è un punto d’incontro anomalo nella geografia produttiva del made in Italy, noi siamo in pieno Nordest con una sede in campagna, a Catena, una frazione di Mallorba, provincia di Treviso. Il resto del mondo comincia sotto casa”.
A parlare è Marco Muller, direttore di Fabrica Cinema, ospite degli incontri Il gioco del cinema di Italia Cinema. Muller inquadra il senso cosmopolita di un caso importante del nuovo panorama produttivo italiano, braccio di casa Benetton che, all’inizio articolato anche da Oliviero Toscani, ora è guidato da Muller, ex direttore dei Festival di Pesaro, Rotterdam, Locarno.
Fabrica Cinema presenta alla Mostra in concorso per Venezia 58 Il voto è segreto dell’iraniano Babak Payami, forte di un pedigrée che vede nei 5 anni di laboratorio, una messe di premi e riconoscimenti ottenuti dai suoi prodotti realizzati da autori asiatici, europei e sudamericani nei più importanti festival (fra gli ultimi Moloch, 17 anni, Lavagne, Il cerchio, No man’s land).

Muller, partendo da Fabrica e da altre situazioni interculturali, come si determina la nazionalità di un film?
E’ superato il concetto di coproduzione vecchio stampo con mere quote compartecipative e pudding artistico-tecnico. In Francia godono da 20 anni di chiare leggi di assistenza finanziaria statale e da almeno 10, con Canal Plus, mettono il marchio a film realizzati in Asia, Sudamerica, Africa. E guarda caso ora certi produttori francesi sono gelosi che dall’Italia si vada per il mondo a scovare progetti utilizzando trucchi e segreti ‘parigini’. Una novità degli ultimi anni è nel fatto che una parte del nostro cinema nasce insieme alle idee dei registi, i produttori non sono più soltanto meri strumenti ‘cercasoldi’ o di quote finanziarie. Altro aspetto determinante: il nostro legame è tale con gli autori che attraverso scontri fondamentali, le loro scelte artistiche dobbiamo capirle innanzitutto noi produttori, altrimenti sarà il pubblico a non comprenderle. Come è accaduto per Il voto è segreto dell’iraniano Payami, la cui vita si è concretata dopo le riprese negli ottimi e ospitali laboratori di Cinecittà, ove abbiamo visionato i ciak giornalieri, montato, lavorato al sonoro e alla colonna sonora dell’italoamericano Michael Galasso che non ha fatto scelte etniche ma di proficuo scambio ispirativo con l’Iran e Payami. Con tutte queste caratteristiche del film, a chi mi chiede perché Il voto è segreto non sia un film comunque italiano – coproduce anche Raicinema – io non so più cosa rispondere. E’ per l’Italia ancora un problema di etichette e leggi. Al festival di Cannes ormai, tanto per tornare in Francia, neanche ufficializzano più la nazionalità dei film.

Insistiamo: come vede la situazione della anomala fabbrica di eterogenei prototipi che da 2-3 anni, come testimoniato in questi giorni di Mostra dagli Incontri “Il gioco del cinema”, è il fulcro della produttività italiana di nuova generazione?
Noi di Fabrica Cinema abbiamo una certa visibilità per ovvie ragioni trans-cinematografiche e con certi accordi riusciamo ad andare avanti bene, ma per altri produttori spesso ogni volta è una scommessa. E’ comunque evidente il fattivo e qualitativo nuovo policentrismo della produzione italiana. Grazie a rabdomanti coraggiosi come Amedeo Pagani che lavora col greco Angelopulos, in Argentina non solo con Bechis, e di recente a Taiwan con Hou-Hsiao Hsien, come Riccardo Tozzi di Cattleya che fa fare a un regista serbo, Paskaljevic, un film che è qui in concorso girato in Irlanda ma tratto da un racconto cinese, come Domenico Procacci che lavora col macedone Manchevski e da anni collabora con autori australiani, e Tilde Corsi per l’israeliano Gitai. E ce n’è altri su questa strada. Tutti disposti a passioni, rischio, ricerca, alleanze vere e motivate, produttori in cerca di traghettatori transculturali. In questa nuova zona di operazioni noi di Fabrica Cinema non ci sentiamo certo soli, in Italia.

autore
06 Settembre 2001

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