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Un film dove la bestemmia diventa estremo atto di fede è l’ultimo paradosso di Marco Bellocchio, autore da sempre provocatorio ma ora approdato a un classicismo dello stile e del pensiero che sfida qualsiasi interpretazione polemica. L’ora di religione, nelle sale dal 19 aprile distribuito dall’Istituto Luce, poi a Cannes in concorso, è un film straordinario e complesso: non solo discorso laico su una società cattolica come quella italiana, ma anche discussione politica e analisi dei rapporti familiari. “Il divieto ai minori di 14 anni – riflette il regista – dimostra che i censori si fermano al dettaglio; la bestemmia, mi ha detto un sacerdote dopo aver visto il film, è il grido di disperazione di Cristo sulla croce”.
Quindi il laicismo non vuole contrapporsi in modo esclusivo al mondo cattolico?
Non c’è intenzione di offendere. C’è la rappresentazione di una storia familiare: è avvenuta una catastrofe perché certe cose sono venute a mancare, l’amore della madre per i figli… Sono i bigotti a guardare i dettagli.
C’è anche una velata polemica contro le scelte confessionali del nostro sistema scolastico.
Non metto in discussione l’ora di religione: si può scegliere di farla o esonerarsi. Ma non è giusto, a mio parere, che dietro la cattedra ci sia un crocefisso.
Qual è la sua posizione personale rispetto alla fede?
Non entro nel dettaglio autobiografico, ma certo, siamo stati educati negli anni ’50-60, e la fede ci è stata organizzata, razionalizzata, è stata resa realistica. Quando poi il bambino diventa adulto, tutto questo edificio non regge più. Dire “io sono ateo” è una formula ottocentesca, io mi definisco laico, credo nei rapporti umani. Poi spesso trovo più interessante dialogare con un sacerdote e confrontarmi con l’assurdo della sua fede.
Parlando del versante politico del film, l’immagine dei rapporti tra classe dirigente e poteri ecclesiastici mi ha ricordato il Petri di “Todo modo” per la scelta astratta e onirica.
La scena della festa dell’editore è effettivamente una mascherata dove preti e suore risultano assurdi. Ho rinunciato a una rappresentazione della realtà politica italiana attuale in cui non mi riconosco e ho scelto l’irrealismo. Quella di Petri era una visione interessantissima proprio per questo.
Nel film non manca un atto d’accusa contro la bruttezza, rappresentata dal Vittoriano e dal desiderio di distruggerlo.
Credo che il Vittoriano sia brutto, anche se lo rispetto come simbolo della patria: ma non c’è bisogno di distruggerlo per l’artista, basta trasfigurarlo attraverso il lavoro dell’immaginazione. La bruttezza è anche un problema del cinema italiano, spesso chi inizia a fare il regista è intimidito dalla bruttezza del cinema medio e si ritrova a fare cose altrettanto brutte. Dicono “avevo quattro soldi, avevo solo tre settimane”, ma la libertà di avere tempo e mezzi a disposizione va conquistata.
Non c’è qualche giovane autore che salverebbe?
Certo, ci sono giovani molto interessanti. Faccio solo due esempi, senza voler far torto a nessuno: Edoardo Winspeare e Vincenzo Marra. Tentano un linguaggio nuovo. Il vero cinema è questo sperimentare qualcosa di vivo e non meccanico, che trovi anche in Lynch o nei Coen.
Ha pensato a sua madre scrivendo un film che ha come sottotitolo “Il sorriso di mia madre”?
Mi colpì la santificazione di una coppia di piccolo borghesi: pensai a mia madre e al suo spirito di sacrificio totale… ma questo non basta, come dice la poesia russa, scritta dal padre di Tarkovskij, che viene letta nel film. Un’insoddisfazione permanente dovrebbe spingerci a lottare. Questo non è un film di rassegnati e dunque non deprime.
Crede che tornare per la quinta volta a Cannes le riserverà qualche sorpresa?
La vita non si ripete mai, anche se ho già salito quelle scale più volte, saranno diversi gli uomini, i giurati e gli spettatori. Quanto a riconoscimenti e targhette, non mi interessano.
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