Mentre sono in vacanza in una baita isolata, una giovane ragazza e i suoi genitori – una coppia omosessuale molto affiatata – vengono presi in ostaggio da quattro sconosciuti armati che chiedono alla famiglia di compiere una scelta impensabile per evitare l’apocalisse.
E’ attesissimo, in uscita con Universal il 2 febbraio, il nuovo film di M. Night Shyamalan Bussano alla porta, basato sul romanzo ‘La casa alla fine del mondo’ di Paul Tremblay, che vede nel cast, tra gli altri, un colossale e intenso Dave Bautista. Abbiamo chiesto al regista di parlarci nel dettaglio del suo lavoro sul film.
Lei è un ‘family man’, e in effetti nei suoi film il tema della famiglia emerge molto…
Se fossi stato single avrei scritto storie su appuntamenti rovinati da qualche evento soprannaturale. Ma oggi i miei peggiori incubi riguardano la famiglia, che qualcuno possa impossessarsi di casa mia, o rapire le mie figlie, o far del male ai miei genitori, che oggi sono piuttosto anziani e molto fragili. Perfino lasciarli per venire qui mi rende ansioso. Quindi mi interesso a temi come l’invecchiamento o cose del genere. D’altro canto le mie figlie stanno crescendo e se ne vanno di casa, quindi ho meno controllo anche su di loro. In questo film in particolare c’è qualcuno che ti entra in casa e di cui non sai se ti puoi fidare.
Dave Bautista spicca particolarmente, come l’ha scelto?
Guardo sempre a due elementi quando realizzo i miei casting. Da un lato ci deve essere qualcosa nella carriera dell’attore che mi abbia colpito, e nel caso di Dave è stato Blade Runner 2049. Un ruolo piccolo ma davvero straordinario. E poi devono essere persone equilibrate, che siano nel giusto momento della vita per interpretare quello che mi serve. Devono essere aperti e pronti. Qui gli do un ruolo difficile: un gigante con l’innocenza di un bambino. Non sapevo granché della sua carriera di wrestler, ma un giorno mi ha mostrato una delle sue cinture. Ma lo trovo un essere umano completo, bello, tragico, meraviglioso. Lo guardi e hai l’impressione che possa uccidere chiunque voglia, mi chiedo come sia essere nei suoi panni, proprio per questo deve essere molto responsabile, e può assumere anche un aspetto molto protettivo, e questo mi ha subito interessato. Sono stato fortunato ad essermi imbattuto in lui.
E la sua fascinazione per le religioni?
La mitologia religiosa mi ha sempre affascinato. Qui ci si chiede cosa accadrebbe se l’Apocalisse fosse reale e se avvenisse al giorno d’oggi. I quattro cavalieri sarebbero una cuoca, un insegnante, un infermiere e un ubriacone. Cosa accadrebbe quando realizzi che le figure bibliche sono solo gente comune. A un certo punto ci sembra di non contare niente, e realizziamo all’improvviso che siamo importanti. Il senso ultimo è che tutti siamo importanti, tutti possiamo fare una scelta e abbiamo la responsabilità di quello che ci succede attorno. Io vengo da una famiglia molto religiosa. Tutti hanno bisogno di una storia a cui credere e in particolare i giovani, oggi, si chiedono insistentemente il significato di alcune cose che accadono.
Dopo Old, che era tratto da un graphic novel francese, si ispira nuovamente a una storia scritta da altri. Come l’ha resa sua?
Il setup della storia era bellissimo, veniva incontro ai temi che mi interessano. Posso stare anche due anni a lavorare su una singola idea. Una serie di elementi mi hanno spinto verso questa storia. Il senso di paura insito, l’ambientazione piuttosto contenuta, l’uso del soprannaturale, e l’aspetto centrale della scelta tragica, me l’hanno fatta particolarmente amare. Ma mi interessava raccontare una versione differente della medesima storia. Il punto che mi interessava era proprio la scelta: “cosa faresti se fossi costretto a mettere davanti te stesso rispetto al destino dell’umanità?” E il punto è che non c’era nessuna risposta giusta. La prima risposta sarebbe assolutamente colpevole: possono morire tutti. Ma man mano parte un’argomentazione. Posso convincerti a cambiare idea?
Le fa più paura l’arrivo dell’Apocalisse o le scelte degli esseri umani?
Non sono sicuro che ci sia una differenza tra le due cose. Penso al libro ‘Ishmael’ di Daniel Quinn in cui un gorilla pone domande esistenziali all’uomo sulla ‘civiltà del progresso’ e si chiede ‘dove abbiamo sbagliato?’. Diecimila anni fa, quando abbiamo inventato la storia delle religioni, qualcosa è andato storto, non avremmo immaginato che in diecimila anni ci saremmo trovati di fronte alla fine. Forse ci saranno rimasti un centinaio di anni, se continuiamo in questo modo. Nel libro ci si chiede in cosa abbiamo creduto finora e si capisce che tutto si basa, fondamentalmente, sul credere l’uno nell’altro. Ciascuno di noi può fare qualcosa per gli altri e la comunicazione diventa fondamentale. Su questo si basa anche il mio film, sul credere negli altri, a partire dai nostri familiari, ma anche negli estranei. Ed è difficile perché di base siamo sempre più isolati e sempre più concentrati su noi stessi.
Eppure il suo finale è più conciliante rispetto a quello del libro.
Il punto è sempre ‘che scelta farai’?. Ma nel libro, di fatto, non scelgono. Una delle premesse della storia è ‘devi scegliere’: sì o no. E’ tutto lì. Puoi dire no o sì ma non puoi permetterti di non scegliere.
Non si può evitare di pensare al Covid, lei stesso nel film parla di un virus mortale, tra le varie piaghe che minacciano di distruggere l’umanità…
Ci ha fatto capire che siamo tutti vulnerabili, non solo in senso biologico. Ma ancor di più in senso emotivo. Un estraneo ha potere sulla vita dei miei genitori, ad esempio. Se ci incontriamo e lei mi passa il covid, e io lo passo a loro, e muoiono, è dipeso da un estraneo. Per quanto io possa credere in voi e rendere onore alla nostra relazione, ci mette esistenzialmente in crisi. La mia esperienza personale è stata probabilmente diversa da quella di molte persone che vivono in città. Sono in campagna, con tutta la famiglia, siamo abbastanza isolati e io sono abituato a questa condizione, dato che sono soprattutto uno scrittore, stare da solo aiuta la mia concentrazione. Lo stesso vale per i miei figli, che sono artisti, è stato un bel periodo, avevamo la fortuna di avere uno spazio nostro e poter uscire, mentre chi era in città era confinato in casa con regole rigidissime, consapevole della minaccia. Per noi era diverso. I miei genitori e mia sorella abitano vicini, ci potevamo vedere. Certamente il mondo ha rallentato, abbiamo perso energia, ma è stato comunque un momento interessante. Abbiamo imparato ad essere grati per ciò che abbiamo, e quando ne siamo usciti non abbiamo subito il trauma che hanno avuto i miei colleghi e amici che vivono in città, quando sono tornati a vedersi e toccarsi nonostante il virus fosse ancora presente.
E in famiglia come avete vissuto il ritorno alla ‘normalità’?
Quando sono venuti a trovarci i miei suoceri hanno cominciato a tossire e noi ci siamo spaventati. Abbiamo pensato ‘è l’inizio della fine!’. Non credevo potessi essere così spaventato dai miei stessi familiari. Il loro cane mi ha leccato e io ero terrorizzato. Ci siamo affrettati a buttare le bottiglie che avevano usato, le tazze per il caffè… eravamo arrivati a quel punto. Tante emozioni, questa storia mi ha insegnato molto.
Come inserisce questo film nella sua cinematografia così variegata?
Quello che mi è piaciuto di questa storia è che è vicina al cinema che preferisco. Ho perfino chiesto alla Universal di poter usare il loro vecchio logo. E’ un film vecchio stile, anche le lenti che ho usato sono degli anni Novanta, qualcosa addirittura degli anni Cinquanta. Ho usato strumenti pesanti, assolutamente poco pratiche rispetto a quelle di oggi. Ma in tutto questo c’è una bellezza che può venire soltanto da questo genere di limitazioni, non si può ottenere in altro modo. Puoi usare il dolly solo in maniera limitata, ad esempio, e questo costituisce un linguaggio, irriproducibile con gli strumenti moderni. Anche con la fotografia e la tavolozza dei colori siamo stati molto rigidi. Un regista è come un linguista: ha bisogno della sua ‘stele di rosetta’. Giudichi un regista tramite la sua capacità di gestire il tutto in base alle limitazioni del linguaggio stesso. Se noti un’incoerenza nel linguaggio, è perché il regista non ha pieno controllo. Se il dramma viene meno, se il tono cambia in maniera repentina, lo spettatore lo percepisce. C’è una responsabilità in tutte le scelte.
Anche E venne il giorno parlava dell’Apocalisse. Vede una differenza sostanziale tra questo film e quello?
La differenza principale sta nel fatto che in E venne il giorno il destino dell’umanità era già segnato. Si trattava solo di decidere come affrontarlo, cercando di controllarlo e salvarsi la vita. Qui sono loro a decidere. Questo ci permette di individuare la preziosità delle cose, delle nostre scelte. Possiamo percepire l’importanza delle nostre scelte. Tutte le cose orribili che sono accadute nella storia dell’umanità, ciascuno di noi è capace di farle. Se scoppia una guerra puoi arrivare a uccidere dei bambini. Com’è possibile che questo accada? Siamo tutti capaci di cose orribili in determinate circostanze, ma anche di cose meravigliose. Siamo su una linea di confine. Forse E venne il giorno è più cinico. Questo si pone delle domande. D’altro canto sono affascinato dai personaggi di confine, non ho mai avuto vero interesse per le storie dove c’è un buono che vince, senza sfumature, porta a casa la giornata e tutto si conclude in maniera così asettica.
C’è ancora una speranza per l’umanità?
I nostri figli. Se penso a loro, sono speranzoso e ottimista.
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