Luigi Lo Cascio: l’intervista


Luigi Lo Cascio, quarant’anni, uno degli attori più amati dai registi del nuovo cinema italiano da Giordana a Piccioni a Cristina Comencini. È tornato a Venezia, per la quinta volta in concorso, con Il dolce e l’amaro di Andrea Porporati nel ruolo del manovale della mafia Saro Scordia, un ruolo che l’ha riportato alla sua Palermo e ai toni del dialetto palermitano. A gennaio invece sarà sul set di Mario Martone per Noi credevamo, dove interpreta uno tra i “molti personaggi adolescenti che crescono e invecchiano con la storia d’Italia”.

Quinta volta in concorso con alterne vicende ma sempre con film importanti.
È vero, sono stato qui la prima volta con I cento passi nel 2000, poi con Luce dei miei occhi, Buongiorno, notte, La bestia nel cuore. In particolare Luce dei miei occhi fu fischiato e contestato ma poi andò bene, vinsi la Coppa Volpi, e addirittura c’è un poeta italiano molto apprezzato all’estero, Roberto Rossi Precerutti, che sta scrivendo un poema ispirato proprio a quel film di Giuseppe Piccioni.

Durante la Mostra riemergono come un fiume carsico le polemiche sul cinema italiano in crisi.
Già nel 2000, la prima volta che sono venuto a Venezia, si parlava di crisi del cinema italiano… Io credo invece che possiamo contare su tante lingue e linguaggi: pensate alla differenza che c’è tra la Puglia di Winspeare e Piva e la Roma di Romanzo criminale. Magari si potrebbe dire che non esiste il cinema italiano come categoria di pensiero. Ma questo era vero anche in passato: che cosa avevano in comune Rossellini e Antonioni? Certo, oggi non c’è più Fellini ma non c’è neanche più Flaiano. E non ce lo vedrei Alberto Sordi a fare il film di Luchetti, Mio fratello è figlio unico.

In qualche momento “Il dolce e l’amaro” fa pensare a un western come aveva echi western un altra storia di mafia, “Il giorno della civetta” di Damiani.
Ho girato tanti western quando ero bambino. Per un maschio diventare attore vuol dire continuare a giocare quel gioco: facciamo che io ero un cow boy e tu un indiano. Se prescindiamo da una riflessione su ciò che è bene e ciò che è male, devo dire che è stato bello anche spaccare la faccia a Fabrizio Gifuni. Nella vita è un amico, ha fatto con me la scuola di recitazione, abbiamo lavorato insieme in La meglio gioventù, ma sul set era un rivale in amore.

Il cinema abbonda di mafiosi: si è ispirato a qualche modello?
No, anche perché la vera Cosa Nostra è una realtà che si conosce solo da pochi anni. Negli anni ’80 c’erano ancora grandi politologi che pensavano che non esistesse. I mafiosi poi non ce l’avevano scritto in faccia, guardate Provenzano.

Che ricordo ha della mafia nella sua esperienza di ragazzo palermitano?
Ho fatto le medie alla Kalsa: ogni tanto arrivavi a scuola e c’era qualche sedia vuota, il tuo compagno tornava accompagnato dai carabinieri oppure non tornava più, perché doveva aiutare la famiglia. C’erano cose che non si sapevano, non se ne parlava nemmeno, almeno non nei termini in cui se ne è parlato dopo, con le rivelazioni dei pentiti. Fino a Buscetta non si conosceva neppure il nome, Cosa Nostra. Una volta venne una tv privata a intervistarci a scuola e un mio compagno disse “per me la mafia è un fenomeno mafioso”.

Lei è passato dal ruolo di Peppino Impastato a quello del picciotto mafioso.
Il Peppino Impastato dei Cento passi era una persona realmente esistita e in quel caso l’invenzione andava messa da parte. Saro Scordia invece è un personaggio immaginario e dunque è stato possibile affinare il suo percorso di coscienza a partire dalla scrittura della sceneggiatura. Ho sempre pensato che all’inizio Saro non crede di essere un cattivo, perché aderisce pienamente al suo mondo. Il suo disincanto arriva molto dopo e bisognava anche rendere questo percorso.

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04 Settembre 2007

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