Luigi Lo Cascio


A Capalbio, in giuria con Abbas Kiarostami e con il produttore ungherese Aron Sipos, Luigi Lo Cascio “diserta” la spiaggia e preferisce le discussioni con i suoi colleghi. “Delle giurie mi piace il gioco del conflitto, scoprire che non tutti la pensano allo stesso modo su un film. Parlare con Kiarostami, poi, è un’occasione eccezionale. Io ho cominciato a vedere film tardi, dopo I cento passi, così negli ultimi tre o quattro anni ho finalmente conosciuto di prima mano classici come Il padrino e Il cacciatore. Al cinema mi sento spettatore, a teatro mi sento autore”. Reduce da un Premio Ubu per “Il silenzio dei comunisti” nell’allestimento di Luca Ronconi e in procinto di tornare al monologo con La caccia, che debutterà a fine febbraio a Udine, l’attore palermitano, vincitore di un David di Donatello e di una Coppa Volpi, amato da Marco Tullio Giordana e Cristina Comencini, piccolo di corporatura, nervoso di movimenti e di voce, è affascinato dal cinema di Herzog e di Lynch, ma ammette di non avere un’idea circoscritta e definitiva di cinema. “Le parole dei critici possono essere importanti, ma alla fine chiunque può dire la sua su un film e questo è il segreto del grande successo di questa forma d’arte rispetto ad altre, più elitarie”.

Con un regista che si muove anche lui tra cinema e teatro come Mario Martone sta per girare “Noi credevamo”.
Le riprese sono slittate: il film, prodotto da Eskimosa, è complesso. È ambientato nel Risorgimento e intreccia tante vicende prese da documenti storici, mettendo insieme figure chiave dell’unità d’Italia, come Cavour e Mazzini, e figure inventate, come il mio personaggio. Io sono un patriota, un giovane rivoluzionario che si unisce alla lotta. Ma di più non posso dire.

Da Faenza con “I Viceré” a Montaldo con la Russia di Dostoevskij c’è un grande ritorno all’Ottocento. Come lo spiega?
L’Ottocento è un momento fondativo. Lì si annidano molti temi del presente, ad esempio la questione meridionale: cosa ci unisce, al di là della lingua e della religione? Da lì partono le domande, i germi e le tare. A Palermo ci sono ancora i buchi delle cannonate dei borboni contro i garibaldini sulle facciate di certe case. Se tiri fuori l’Ottocento dai libri di scuola, ti accorgi di quanto è vicino e vitale.

Come si sta preparando: legge saggi, romanzi, rivede i film di Visconti?
È automatico informarsi, ma non so quanto incida sull’interpretazione. L’attore, a differenza del regista, si confronta con il personaggio come uomo, con un carattere, un’intelligenza, una sensibilità. Il personaggio nasce quindi dall’immaginazione. Alcuni attori si illudono di capire, mettono la coscienza a posto leggendo qualche libro, ma se fosse questione di conoscenza, le epoche passate sarebbero impraticabili: gli esseri umani avevano un altro pallore, un’altra magrezza, mangiavano altri cibi, camminavano su strade diverse.

Come farete a rappresentare le icone del Risorgimento, con una scelta didascalica o in modo straniante, come per l’Aldo Moro di Bellocchio?
Credo che raffigurare al cinema Mazzini o Garibaldi sia più facile che portare in scena Aldo Moro, così vicino nella memoria. Gli eroi del Risorgimento nella nostra immaginazione sono poco più che barbe, cappelli e divise.

In attesa di calarsi nei panni del carbonaro, lei è tornato a girare a Palermo.
Sì, con Andrea Porporati, per Il dolce e l’amaro, che uscirà a fine settembre. È la storia di un giovane pregiudicato “spregiudicato” che piace alla mafia per il suo coraggio. Cosa Nostra se lo coltiva e diventa il pupillo del boss, ma a lungo andare si rende conto che quello che l’aveva affascinato è fragile e falso. Prende coscienza anche grazie all’amore con Donatella Finocchiaro. Nel cast ci sono anche Fabrizio Gifuni e Renato Carpentieri.

Un ritorno alla Sicilia dopo “I cento passi” e dopo la breve parentesi a Stromboli di “La meglio gioventù”.
È stato bello soprattutto recitare in palermitano. Per me l’humus del cinema è praticare le lingue e i dialetti. L’italiano è la lingua del teatro, della televisione, della retorica, mentre la lingua del cinema è il dialetto. Penso spesso al successo di Mery per sempre di Marco Risi e credo che fosse dovuto soprattutto all’uso del palermitano.

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02 Luglio 2007

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