Lucia Poli


Lucia la strega, a Locarno è rimasta appena qualche ora. Richiamata in Italia dai suoi Brividi teatrali. Tornerà in caso di premio, riaffrontando volentieri il viaggio lungo, e avventuroso, tra Roma e Locarno, tra coincidenze perdute e voli in ritardo. Ma avventuroso è stato anche l’avvicinamento alla Gostanza di Paolo Benvenuti per un’attrice come lei, con poche frequentazioni al cinema e pochissimi ruoli drammatici. “All’inizio degli anni ’70 ho fatto qualche filmettino sperimentale con Giuseppe Bertolucci e Gianni Amico, poi mi hanno proposto solo brutte cose, di consumo, e allora mi sono concentrata sul teatro che mi dava libertà espressiva, una compagnia mia, la possibilità di essere autric oltre che attrice”. Prima che in Gostanza da Libbiano l’avevamo vista brevemente in Albergo Roma di Ugo Chiti – era una sartina pettegola e subito vinse il Nastro d’argento – dopo chissà, non è escluso che arrivino proposte. Di certo sarà in scena con un Oscar Wilde al femminile (L’importanza di essere onesta).

Cosa ha trovato di speciale in Gostanza?
Da subito, con la sceneggiatura non ancora ben cotta, ho incontrato una donna piena di forza e dignità, che non ha niente del piagnisteo femminile. Una che contrappone la sua immaginazione alla violenza dei persecutori e li cattura, riesce ad ammaliarli con la sua capacità di affabulazione.

Un’attrice?
Una di quelle donne di campagna che tutti ascoltano attorno al fuoco, capace di guarire le malattie altrui perché sa intuire quello che c’è dentro gli altri e brava a raccontarlo.

Una strega.
Come tutte le donne d’ingegno. Per questo fanno paura agli uomini e al potere. E anche per un certo erotismo che questa donna, maltrattata e stuprata quando aveva otto anni, sa inventarsi. Immagina il demonio come un amante divertente e infaticabile. Proietta i suoi desideri in questa fantasia e dimostra così quanto sono repressi i suoi carnefici.

Aveva già incontrato, nella sua carriera, un potere femminile così?
In questa forma mai. Questa è una donna antica e scarna, io ho sempre fatto personaggi moderni, armati piuttosto di ironia e ambiguità, da Dorothy Parker alla regina del giallo Patricia Highsmith della mia ultima pièce.

E dove ha rintracciato tracce di Gostanza?
Nell’infanzia. Negli anni ’50 si andava in vacanza in campagna, in provincia di Pistoia, dove era nata mia madre. Lì tutto era rimasto come nel Medioevo, isolamento totale, pretelevisivo. Non c’era neppure il gabinetto. C’era un uomo che curava con le erbe e lo chiamavano lo stregone.

Ma la stregoneria, e anche la cura con le erbe, è una cosa tipicamente femminile…
E’ vero. Gostanza infatti aveva creato un gruppo di donne, quasi una comune matriarcale. Per questo dice alla nipotina: “ti insegnerò a curare quando sarai vedova”, perché quella cultura non prevede la presenza degli uomini.

Ma agli uomini sa tenere testa, anche agli inquisitori.
Lo fa con la sua forza interiore, nonostante l’umiliazione a cui la sottopongono che è la tortura ma anche la nudità come modo per avvilire l’altro, usata infatti nei lager dai nazisti. Lei riesce a conquistare i due inquisitori di provincia, più ingenui, con le sue parole e la sua severità; non il terzo, quello che farà poi bruciare Giordano Bruno qualche anno dopo. Quello è un cacciatore di eretici non di fattucchiere. E Gostanza, non più creduta e considerata, crolla. Si arrende.

Lo farebbe, a teatro, questo testo?
Non me la sentirei, ho sofferto molto per farlo e ripeterlo tutte le sere… A teatro è bello sentir ridere la gente. E poi il comico è stata una grande conquista delle donne – una cosa a cui le attrici arrivano dopo essere passate per la sofferenza e non prima – perché mai rinunciarci?

autore
05 Agosto 2000

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