Come Sergio Rubini con L’uomo nero, storia delle velleità artistiche di un capostazione di provincia, anche Daniele Luchetti ha voglia di tornare al peccato originale di una famiglia piccolo borghese dove la creatività sembra non poter mai sfociare nel successo. E per un paio di generazioni almeno. Sarà questo il tema del suo prossimo film, il decimo. “Vengo da una famiglia di artisti non risolti: mio nonno faceva il cartellonista per vivere, mio padre insegnava all’Accademia di Belle Arti, ma era vicino al movimento concettuale… Lui mi avrebbe voluto restauratore, non cineasta, io ero convinto di voler fare cinema, sicuro di potercela fare, e così ho iniziato con la scuola Gaumont”. A raccontare agli allievi della Nuct, in un incontro moderato dal critico Mario Sesti e introdotto dal direttore artistico della scuola di cinema e televisione che ha sede a Cinecittà, Francesco Alò, è lo stesso regista, autore eclettico e se si vuole discontinuo, con qualche passo falso ma anche diversi film importanti. A maturità raggiunta sembra aver trovato un personale intreccio di realismo sociale, commedia politica e ritratto familiare che fa del quotidiano narrazione epica, come dimostrano Mio fratello è figlio unico e, ancor più, La nostra vita, l’unico titolo italiano in concorso a Cannes nel 2010 che ha portato a Elio Germano il premio per l’interpretazione e al film un successo internazionale non scontato.
Intreccio che tornerà, sembra di capire, anche nel prossimo progetto, ancora prodotto da Cattleya come gli ultimi due. “Con questo retroterra familiare ho vissuto il successo con senso di colpa cercando di non esaltarmi mai troppo, ad esempio continuando a fare pubblicità per mantenermi, prendendomi delle lunghe pause dal cinema d’autore, pause in cui mi sono dedicato all’arte contemporanea o alla cucina… Di recente però ho ripreso i miei appunti di 15 anni fa, appunti in cui ricostruivo alcune storie della mia famiglia, storie buffe, a volte assurde, che risalgono agli anni ’60 e ’70. Per me è una sorta di mitologia familiare, i miei erano bravissimi a raccontare delle storie strambe, come quella della capretta tenuta in terrazza a cui davano da mangiare fogli di carta e per farle credere che fosse erba le mettevano un paio di occhiali con le lenti verdi. Quando mi sono messo a lavorare su questo materiale con Rulli e Petraglia, mi sono reso conto che gli aneddoti strani sparivano sullo sfondo, ed è venuta fuori invece la storia di mio padre, con le sue aspirazioni artistiche frustrate dalla realtà e dal bisogno di lavorare per guadagnare”.
Romano, classe 1960, Luchetti deve molto all’incontro con Nanni Moretti, avvenuto proprio a Cinecittà, nel teatro 16, dove il giovane aspirante regista girava un cortometraggio di diploma, Cine-filles, e Nanni la scena del match televisivo di Sogni d’oro, quella in cui è mascherato da pinguino. Dall’amicizia nacquero collaborazioni libere, come quando Luchetti in La messa è finita si presta a fare un promesso sposo sessuofobico nella scena del corso prematrimoniale tenuto da don Giulio. E proprio Moretti, con Barbagallo, produce Domani accadrà (1988), l’esordio surreale che approda a Cannes, in Un Certain Regard, e vince il David di Donatello come miglior opera prima. Ma naturalmente è Il portaborse, un film che molti si ostinavano all’epoca a considerare di Moretti tout court, a raccontare meglio il rapporto tra i due registi-complici (tanto che quando Nanni ha voglia di litigare in Aprile, va sul set di uno spot diretto proprio da Luchetti). “Nella prima scrittura del Portaborse, l’onorevole Botero doveva essere un politico della vecchia guardia, un sessantenne… Così per il ruolo avevo pensato a Gian Maria Volontè, a cui non era piaciuto il soggetto, a Giancarlo Giannini, che voleva troppi soldi, poi a Renato Carpentieri e Paolo Villaggio. Ma tutte queste scelte avevano qualcosa di artificioso… Quindi mi venne in mente di proporlo a Moretti, che era il produttore, mi aveva suggerito lui quel soggetto di Pasquini e Bernini, sceneggiatori con cui collaboravo già nei film precedenti. All’inizio Nanni oppose resistenza: “Sono troppo giovane, troppo bello, troppo democratico”. In effetti allora non c’era una classe politica così giovane, che sarebbe venuta dopo, con D’Alema e Veltroni, che poi invecchiarono anche loro. Ma, allora, nel ’91, scegliere Nanni Moretti per quel ruolo era una premonizione di cose che sarebbero arrivate dopo, come il potere seduttivo di un politico”. Come Tangentopoli, naturalmente. O come Il Caimano?
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