ROMA – Una voce ironica e brillante che ha illuminato 70 anni di cultura italiana. È stata quella di Mario Verdone, popolarissimo critico del cinema, ma anche saggista, documentarista, scrittore: un autore a tutto tondo, che ha fatto dell’interdisciplinarità la sua cifra stilistica e umana, rivive oggi nel documentario prodotto da Laurentina Guidotti per Iterfilm, Luce Cinecittà e in collaborazione con Rai Cinema. Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2024, Mario Verdone: Il critico viaggiatore è diretto dal figlio Luca Verdone, che con i fratelli Carlo e Silvia è andato alla scoperta di un album di famiglia ricco di fotografie, filmati e documenti che ci fanno viaggiare nella storia cinematografica e culturale del nostro Paese e non solo. Tra le tante testimonianze raccolte quelle di Daniele Luchetti e Fernando Birri, del nipote e regista Brando De Sica, di Liana Orfei e di Christian De Sica.
Nel ripercorrere la storia di Mario Verdone, nel modo in cui ha contribuito al successo di Vittorio De Sica e Federico Fellini, ci si rende conto della responsabilità che possono avere i grandi critici e intellettuali. Luca Verdone, quale è stato l’impatto di suo padre Mario nel mondo della critica cinematografica?
Per come la vedeva mio padre, il critico doveva essere un osservatore obbiettivo che si appoggia alle sue conoscenze per giudicare un film, sia da un punto di vista figurativo, che da un punto di vista letterario, estetico, narrativo. C’è un linguaggio estetico e uno contenutistico, ce lo insegna Umberto Eco, e mio padre fondeva molto bene questi due aspetti della critica. È riuscito ad ottenere un metodo molto singolare di giudizio composito, una miscela di tanti ingredienti. Era un critico interdisciplinare, sulla interdisciplinarità ha basato tutto il suo lavoro.
Nel film si parla di sinestesia. Una capacità, quella di fondere le arti, che anche di critici di oggi non dovrebbero sottovalutare.
Esatto, lui ha anticipato quello che diceva Umberto Eco in Opera aperta.
In che modo la passione per il circo e per il futurismo convivevano in lui?
Queste due passioni sono estremamente complementari nella mentalità di mio padre. Perché tutte e due fanno riferimento all’irriverenza, alla distruzione della solennità, al rifarsi al periodo dell’infanzia. Il futurismo, distruggendo la solennità, andando al sodo su alcuni argomenti tipici della società del suo tempo, aveva tanti punti di contatto con il circo, che va contro la retorica e a favore del mondo dell’infanzia. Il teatro futurista era un teatro irriverente, alogico, senza tempo.
Sul finale del film si legge un bellissimo haiku scritto da suo padre. La sua passione per questo tipo di poesia fa riflettere: è come se, dopo una vita di parole, avesse voluto andare all’essenza delle cose.
Hai colto perfettamente questa sua intenzione. Voleva andare all’essenza, alla semplicità. Era un uomo molto semplice, al limite del bonaccione, che però aveva una profondità incredibilmente estesa, che ti insegnava tanto, anche indirettamente. Portandoci in giro, nel mondo, per festival, mostre, conferenze, ci insegnava senza farci lezioni.
Voi tre fratelli cosa avete imparato dal Mario documentarista?
Mi ha interessato molto il suo modo composito di raccontare. Non andava in una direzione specifica. C’è un documentario bellissimo, che si chiama Anni lieti, dove si vede il momento dei bambini degli anni ’50 a Roma. Una cosa mai vista prima. Ha fatto diversi lavori sugli artisti suoi amici.
Sì, dirigeva questi interessanti saggi documentaristici.
Come Immagini popolari siciliane, girato con il grande Fernando Birri, fondatore della scuola del cinema latinoamericano.
Come ha lavorato sul materiale d’archivio, sia quello privato che quello pubblico?
Ho lavorato molto attentamente sulle lettere e i documenti. Tutto il suo archivio personale è andato al Centro Sperimentale di Cinematografia, che lo ha digitalizzato. Lì si trova tutto, anche le fotografie. Studiando questo archivio mi sono accorto di quante amicizie si era fatto, anche nel mondo.
Qualche esempio?
Per esempio, quando andò in Russia nei primi anni ’70, mio padre scoprì che Grigorij Kozincev era un suo grande fan, era pazzo del suo lavoro, andò addirittura a cercarlo in albergo a Mosca. Su un libro c’è una dedica bellissima a mio padre. Sapere che aveva fatto amicizia con un gigante di quel tipo mi rendeva orgoglioso. Uno dei più bei film che ho visto su Amleto è quello di Kozincev.
Ce ne sono stati tanti di giganti nella vita di suo padre e, di conseguenza, anche in quelle di voi figli.
Sì, una cosa pazzesca. Io andavo a Venezia, dove mio padre faceva il selezionatore e mi imbattevo in personaggi come il regista indiano Satyajit Ray, che era diventato amico di mio padre perché gli aveva dato il Leone d’argento. Io lo guardavo con grande imbarazzo.
Quanto tempo ci ha messo a rimettere insieme tutto questo materiale?
Ci ho messo un anno. Devo molto a Laurentina Guidotti e Conchita Airoldi, senza loro non avrei potuto fare niente. Come senza il Luce Cinecittà, che mi è stato vicino fino alla fine.
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